Note a margine degli Xenia: Xenia I, 13

Xenia I, 13

Tuo fratello morì giovane; tu eri
la bimba scarruffata che mi guarda
“in posa” nell’ovale di un ritratto.
Scrisse musiche inedite, inaudite,
oggi sepolte in un baule o andate
al màcero. Forse le riinventa
qualcuno inconsapevole, se ciò ch’è scritto è scritto.
L’amavo senza averlo conosciuto.
Fuori di te nessuno lo ricordava.
Non ho fatto ricerche: ora è inutile.
Dopo di te sono rimasto il solo
per cui egli è esistito. Ma è possibile,
lo sai, amare un’ombra, ombre noi stessi.

 

Può capitare, o forse sempre càpita, che dopo una perdita si senta il bisogno di conoscere la storia e le radici di chi si è avuto accanto a lungo, ma incredibilmente troppo poco perché passasse per la mente la curiosità o il desiderio o l’esigenza di indagare, di scoprire, di mettere insieme facendoli derivare da una genesi fino a quel momento rimasta nell’ombra e negletta, non ritenuta necessaria e anzi neppure considerata, la forma che hanno assunto i tasselli del presente.
Un presente spesso troppo pieno di sé, cioè troppo vuoto per fare domande che potrebbero rivelargli di poggiare su qualcosa che non è acqua, che ha una consistenza di fondo e perciò mai riconosciuta. Una consistenza che con il lutto viene meno, che di botto o per crepe successive, si accascia.
Ecco allora che ci si lascia andare alla memoria, attenta adesso finalmente anche all’altro e a ciò che lo riguarda, per sapere davvero se essa sa quello che credeva di sapere; una memoria che spande sulle cose una luce diversa, meno automatica, meno scontata, meno univoca, legando le persone e gli eventi in modi prima inusitati.

Chi avrebbe altrimenti pensato che “la bimba scarruffata” fosse là, in posa, nell’ovale di un ritratto, per guardare lui che la guarda sette decenni dopo, come se gli desse un appuntamento “per quando saremo grandi” e insieme gli chiedesse conto in un consuntivo che anticipa i tempi come solo una foto può fare. E per farlo forza il poeta a forzare a sua volta la grammatica al limite dell’accettabilità ( “tu eri” coniugato con “mi guarda” )?
Ma non sempre le cose, da sole, sono rivelatrici.
A volte serve la lente di un altro con cui scambiare gli sguardi.
“Tuo fratello morì giovane”. Per qual motivo se non per ricostruire il senso del passato, inserire Mosca bambina?
Il poeta in realtà parlando del fratello, parla anche di lei.
Vede in essi una sintonia che travalica la parentela: l’essere accomunati dall’ombra dalle quinte del teatro piuttosto che dalle luci del palcoscenico.
Silvio “scrisse musiche inedite, inaudite”, così presto “sepolte in un baule o andate / al màcero”. L’artista e l’opera sepolti in uno stesso destino.
Cosa furono le sue musiche ce lo dicono le parole affiancate “inedite, inaudite”, con la seconda volutamente ambigua in non udite e risultate inudibili, perché al di là della scarsa tecnica del pianista di cui abbiamo testimonianza certa, erano note sconosciute che potevano risuonare solo negli infrasuoni di un uomo che a trent’anni si sarebbe tolto la vita.
Note appunto inudibili e inaudite a chi resta nel range dei decibel percepibili dai sensi e supportati e sopportati dalla sensibilità prima di entrare in zona pericolosa.

“L’amavo senza averlo conosciuto”. Un sentimento dovuto all’essere filtrato dall’amore della sorella di lui, che si espande e configura in affetto transitivo anche a chi lei amava.
Mancando il filtro di Mosca, cercare di conoscere chi davvero era il fratello, non sarebbe servito ad altro che ad accumulare freddi dati anagrafici: “Non ho fatto ricerche: ora è inutile”.

Comunque, per quanto impacciati, quei segni sul pentagramma, di nuovo prima o poi saranno.
E’ il passaggio più filosofico della lirica, di cui si può forse dire che se una cosa è accaduta ( “ciò ch’è scritto è scritto” ), non potrà non accadere, prima o poi, ancora. Perché fa parte del ventaglio dell’essere, il quale, se infinito, infinitamente ricompare.
Insomma: in un tempo limitato, ciò che è possibile può non riuscire a venire alla luce, ma in un tempo infinito non potrà restare nascosto per sempre. Anche se sarà di un altro, inconsapevole.
A tenere vivo nel ricordo Silvio ( e a ricordare, soprattutto, come lei, Mosca, lo ricordava ), è rimasto solo il poeta.
Egli sa che la memoria è l’unico ultimo filo. Quando si spezzerà finirà tutto.
Ma fino a quel momento, data la nostra esistenza di uomini sbilanciata più verso l’apparire che l’essere, e proprio a causa di ciò inconsistenti come ombre, potremo per analogia forse meglio riuscire in un’impresa altrimenti troppo ardua: “amare un’ombra, / ombre noi stessi”.

Fulvio Baldoino

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