Note a margine degli Xenia: Xenia I, 12

Xenia I, 12

 

La primavera sbuca col suo passo di talpa.
Non ti sentirò più parlare di antibiotici
velenosi, del chiodo del tuo femore,
dei beni di fortuna che t’ha un occhiuto omissis
spennacchiati.

La primavera avanza con le sue nebbie grasse,
con le sue luci lunghe, le sue ore insopportabili.
Non ti sentirò più lottare col rigurgito
del tempo, dei fantasmi, dei problemi logistici
dell’Estate.

L’assunzione massiccia della prosa anche in questo Xenia non rinuncia ad accorgimenti tipici della forma poetica.
Intanto la suddivisione del testo in due strofe fortemente simmetriche e incipit in anafora, con distribuiti in esse ben cinque versi sdruccioli.
Viene mantenuto lo stesso soggetto, la primavera, rispettivamente descritta nei relativi primi due versi, non per nulla entrambi di 14 sillabe, ovvero lo stesso numero che troviamo nei versi introdotti dall’anafora “Non ti sentirò più”. Versi rafforzati nella loro anaforicità dall’essere anch’essi di 14 sillabe.
Sono quelli che aprono al discorso esplicito sul ricordo di Mosca.

In entrambe le strofe, troviamo una coppia di enjambement: “antibiotici / velenosi” e ” omissis / spennacchiati” per la prima; “col rigurgito / del tempo” e “problemi logistici / dell’Estate” per la seconda.
Vi si nota, al di là della fisiologica sottolineatura creata da qualsiasi enjambement, l’enfasi su “Estate”, scritta con la maiuscola in contrasto con “primavera”, regolarmente scritta con l’iniziale minuscola.
Facile pensare, ma tutt’altro dimostrare, che sia perché l’estate era la stagione che stava nei pensieri tra il preoccupato e il compiaciuto di Mosca.
Sappiamo infatti che era lei ogni anno ad assumersi l’onere di pre-occuparsi per organizzare le ferie estive. E ora che sono giunti gli anni in cui non c’è più niente da preparare, l’io lirico ripensa a quei momenti con nostalgia.
La primavera, d’altro canto, può essere la stagione in cui pesa di più ripensare alla morte di chi si è amato perché a fronte della natura che rinasce in un ciclo infinito, quelle della vita umana sono stagioni irripetibili, che non prevedono ritorni.
Tuttavia se “luci lunghe” e “ore insopportabili” sono espressioni che ripetono lo stesso concetto ( in modo rafforzativo più che completivo ) e si capisce senza tentennamenti che il colpevole in oggetto è il tempo vuoto, per “nebbie grasse” il discorso scarta un poco da questo binario, e deve essere inteso, nonostante la primavera sia tutt’altro che la stagione delle nebbie ( e anzi, in definitiva, proprio per questo ), come la coltre spessa ( resa con “grassa” per veicolare la fatuità untuosa e viscida del suo progressivo e ormai insensato intromettersi ) di bugiarda prospettiva di futuro.

E’ per questo che la primavera viene vista dal poeta come una talpa che prepara i frutti dell’estate. Sotto terra scava per lunghi mesi, quindi esce fuori e si muove non ancora disabituata dal suo passo sotterraneo che era farsi strada raspando nel buio.
“La primavera sbuca col suo passo di talpa”. Si tratta di un verso imbibìto di significati.
Sulle prime lascia spiazzati, abituati come siamo a immaginare la primavera nella festa di fiori e di bellezza di Botticelli, ma è proprio questo contrasto con l’aspettativa che ne abbiamo ad indurci a sceverarlo e a vedervi svelato uno spessore che da solo, se lo si potesse decodificare preventivamente, reggerebbe tutto il messaggio della lirica distribuito nei nove versi seguenti.
La primavera è una talpa che esce dal sottosuolo così come dal profondo del pozzo “l’acqua sale alla luce e vi si fonde” ( e anche il messaggio complessivo, sebbene non abbia per oggetto la stessa persona, ha in “Cigola la carrucola…” una buona dose di anticipazione ) perché entrambe, talpa e primavera, nell’inusuale accostamento, portano sofferenza dopo l’illusione di una felicità che solo per un attimo balena e si ripropone, per poi sùbito dissolversi in un presente che minaccia di far riaffiorare i ricordi ( il “rigurgito / del tempo, dei fantasmi” è ambivalente: è riferito a Mosca ma vale anche per il poeta ).
Alla fine la stessa Mosca è assimilata questa volta non all’insetto omonimo ma alla talpa, animale anch’esso quasi privo di vista. Pericoloso perché ha il potere, così unghiato, frantumata la crosta che cercava di contenerlo sotto il livello di coscienza, di venire allo scoperto.
Il risultato è che la sovrapposizione primavera-talpa-Mosca ha l’effetto di tuttavia metterle in contrasto.
E qui si capisce la scelta di dividere la lirica in due strofe: in una la primavera sbuca in uno scatto repentino. E’ una strofa in cui la primavera è denotata dalle cose concrete di Mosca ( gli antibiotici, il chiodo al femore, l’eredità rappresentata dai “beni di fortuna”).
Nella seconda invece è connotata dalle sensazioni del poeta ( nebbie grasse, luci lunghe, ore insopportabili ) e avanza, e il periodo per concludersi abbisogna ancora di procedere nel verso successivo, che vuole appunto rendere l’idea del procedere e dell’allargarsi temporale e spaziale della primavera.
Non è una descrizione accattivante per la stagione più celebrata e più rimpianta dall’arte, per ciò che è e per quello che in metafora rappresenta.
Eppure proprio le preoccupazioni, le noie e gli impicci, servono. Servono per rimarcare che c’è qualcosa di peggio: la nausea per la quale il vuoto fisico lasciato da Mosca si traduce in vuoto esistenziale.
Mosca non c’è più, ma poiché le piccole e grandi ansie erano le sue, i piccoli e grandi problemi erano i suoi, la suscitano e sarebbero persino i benvenuti se ritornando ora facessero ritornare il tempo in cui da lei erano deprecati, dolci e turbatori “come i nidi delle cimase”.

Un discorso a sé meritano i due versi in chiusa della prima strofa, dove in realtà l’ultimo si riduce ad una parola.
Si tratta di una cosa che Montale accenna soltanto, in una lettera all’amico e critico letterario Gianfranco Contini.
Una questione di eredità che sarebbe toccata a Mosca se questi “beni di fortuna” per un “omissis” non fossero stati dirottati su altri. E altro non sappiamo.
In particolare resta il dubbio se “omissis” si debba ricondurre a qualcuno ( che il poeta omette di nominare ) o a qualcosa ( che è stato omesso ) o se stia ad indicarli insieme, in una congiuntura che porterebbe l’aggettivo “occhiuto” ad assumere un significato misto di biasimo e prosopopea.
Certo per il poeta era importante nei tre versi conclusivi della prima strofa esprimersi proprio in questi termini, perché permettono un richiamo concettuale tramite allitterazione di chiodo, chiuto, chiati, rispettivamente a chiodo, occhiuto e spennacchiati, altrimenti difficile da rendere.

Sulla questione dell’eredità, dai contorni piuttosto vaghi, sono state avanzate alcune ipotesi.
Con una certa audacia ( e non perché la si ritenga più probabile, ma perché è giusto non lasciare nulla di intentato ), se ne vuole qui avanzare un’altra: se l’occhiuto omissis di una formula più precisa e incontestabile, avesse invalidato un testamento scritto di pugno, cioè vergato a penna, annullandone in toto o in parte le intenzioni, non avrebbe “spennacchiato” ovvero privato e beffato il virtuale beneficiario?
Comunque se, come si è visto, lo stesso poeta non è andato fino in fondo a soddisfare la curiosità, neppure quella più sana del critico e del filologo nonché amico Gianfranco Contini, significa che non saperlo non inficia e non impedisce di acquisire validamente il messaggio della lirica.
Ai più insistenti Montale, allora come ora, avrebbe risposto:”Non chiederci la parola…”

Fulvio Baldoino

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