Note a margine degli Xenia: Xenia 1, 14

Xenia I, 14

Dicono che la mia
sia una poesia d’inappartenenza.
Ma s’era tua era di qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure non mi dà riposo
sapere che in uno o in due noi siamo una sola cosa.

 

Nell’incipit Montale si difende dall’accusa di non essere un intellettuale engagée come Moravia, Sartre, Pasolini… Ma forse è più che altro un modo per omaggiare Mosca con la sua dichiarazione d’amore; solo postuma, purtroppo.
Si può fare poesia in cui il poeta consapevole di non poter contare su un’unità di misura ( “Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo” ) sia sempre slegato e indipendente, non vincolato ad un’ideologia, a una corrente letteraria, a un amore, a se stesso?
Forse sì, se non appartenere non diventa a sua volta un vincolo, un gonfalone distintivo.
Montale riesce a non cadere in questa trappola.
Dimostra che sa fare eccezioni: sa dedicare la sua poesia a qualcuno; e se lo fa è perché, come in ogni dedica, il dedicatario fa parte dei suoi pensieri e perciò se ne appropria, anche senza saperlo, e li guida a sé.
Succede per la moglie, che non è “più forma, ma essenza”, ovvero impalpabile e diffuso movente dei suoi pensieri commossi e calamitati come dal profumo di una persona che è andata via.
Cioè, perduto il corpo, si sostanzia solo nei suoi pensieri. Inutili, senza ritorno, senza feedback, senza riscontro, senza speranza, e incontenibili. Cioè poesia.
Essa cerca di trattenere qualche reliquia del Tutto che fugge, ma è vera poesia solo se non se ne magnifica, solo se sotto sotto non se ne gloria ed è disposta a riconoscere una realtà ulteriore, che segue anche altre leggi, diverse da quelle consuete del nostro moto e della nostra commozione.
Mosca lo aveva capito compiendo il suo lungo viaggio imprigionata tra le bende e i gessi di un ospedale.
Eppure, conclude il poeta, questo non basta per dare consolazione; per accettare che le due parti di uno stesso simbolo non compongano l’unità.
Il poeta si sa un’ombra ( ce lo ha già detto più volte ), ma questo non fa sì che si possa ricongiungere all’ombra della moglie.
Una muraglia divide comunque chi è vivo e chi è morto: entrambi ombre, sono però ombre di mondi diversi. Sta a vedere solo chi lo è di più.
Ed anzi, restare una cosa sola perché si è metabolizzato l’altro ed è perciò presente anche quando si è rimasti fisicamente soli, non consola: “visione, una distanza ci divide”.
Fulvio Baldoino

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