Nominare l’omosessualità

Nominare l’omosessualità
Nella civiltà di un tempo, nota a chi ha più di quarant’anni, c’era un nome preciso, in dialetto, per designare gli omosessuali. In ligure si dice: buliccio.

Nominare l’omosessualità  

Nella civiltà di un tempo, nota a chi ha più di quarant’anni, c’era un nome preciso, in dialetto, per designare gli omosessuali. In ligure si dice: buliccio.

Immaginavo che l’etimologia fosse in qualche modo legata al bull anglosassone, che vuol dire “toro”. Pare invece che questa parola abbia origini più antiche e con legami forse al termine “bullo”, non come inteso oggi, nel senso di teppista dedito a maltrattare i coetanei, ma nella definizione, ad esempio, di “bullo di balera”, per dire di un giovanotto ardito e dedito al corteggiamento particolarmente insistente. Il carattere del bullo dovrebbe dunque essere territoriale, impetuoso, facile alla lite e alla rissa, egocentrico e presuntuoso. Un carattere forgiato dal testosterone.


Buliccio potrebbe dunque essere un diminutivo vezzeggiativo per definire un uomo non aggressivo, disinteressato alle donne, inadatto dunque alla riproduzione.

E le donne omosessuali? Pare strano, ma in nessun dialetto s’è sentita la necessità di coniare un termine specifico per designare questa condizione.

Val la pena, dunque, ragionarci un pochino, visto che i tempi sono anche cambiati, e possiamo (io spero) parlare di omosessualità senza risolini goffi, senza imbarazzi e senza pretendere di dare spiegazioni definitive.

Se riportiamo tutto a una immaginaria civiltà, costruita sulla figura del borgo, possiamo descrivere una società composta da “focolari” (cioè le famiglie) le quali compongono la comunità. Gli uomini sono i detentori del nome, o meglio del cognome. In esso risiede il diritto di proprietà del fondo che coltivano o che conducono o che fanno condurre. Oppure del mestiere che praticano nel borgo.

Le donne, benché fondamentali, non sono ricordate, non vengono (quasi) registrate. Descrive bene questa condizione antica Cesare Pavese:

“E le donne non contano nella famiglia.
Voglio dire, le donne da noi stanno in casa
e ci mettono al mondo e non dicono nulla
e non contano nulla e non le ricordiamo.
Ogni donna c’infonde nel sangue qualcosa di nuovo,
ma s’annullano tutte nell’opera e noi,
rinnovati così, siamo i soli a durare”.

(Antenati, “Lavorare stanca”, 1936).


È una condizione alquanto strana e difficilmente comprensibile per noi, oggi: le donne sono fondamentali, ma non contano nulla. È un bel paradosso, ma credo che la situazione fosse proprio questa. Si tratta, come spesso accade nelle questioni umane, di due questioni inconciliabili.

L’omosessuale maschio (che sia o meno effeminato) rappresentava dunque un grosso problema per la comunità. Non tanto come elemento di disturbo morale, ma in quanto elemento di rottura di uno schema preciso e ripetuto nei secoli: la discendenza, non gametica, ma del nome. Perché dal nome e dall’ordine che si dà al nome legandolo alla terra, si dà la forma ad una civiltà, si evitano litigi, si raggiunge una certa stabilità di consumi, di scambi, di relazioni.

Anche la chiesa cattolica si rende conto di quanto sia necessario mettere ordine fra il popolo minuto, evitare la promiscuità, l’abbandono della prole o delle donne, e, con la controriforma, pone ordine burocratico attraverso la parrocchia, che assume così un potere derivato anche dalla detenzione dei registri. In via ufficiale questi saranno i “Registri delle anime”, in contrapposizione agli altri registri, quelli di terra, del catasto, tenuti in ordine, laicamente, dai notari.

Ma torniamo all’omosessualità: l’attuale passione per la circospezione sui gusti sessuali ed erotici delle persone è questione assai recente. In realtà, in questo tempo indeterminato e teorico che uso per ragionare, non era neanche immaginabile disquisire se una persone avesse o meno certi gusti, morali, immorali, leciti o turpi. Il sesso si consuma in modo riservato: è affare di famiglia. Solo gli animali lo fanno all’aperto, senza vergogna. Se una persona è omosessuale (buliccio) rappresenta un problema, non tanto perché non sarà in grado di avere figli, ma perchè non sarà interessato a prendere con sé una donna, a formare una famiglia. Si, perché per avere figli non è necessario congiungersi con donna titolare registrata in atti. Può bastare che la donna stessa porti con sé un figlio, che lo abbia esternamente al matrimonio, ma sarà pur sempre figlio anche di lui. Questo garantisce la discendenza, la proprietà, il diritto delle persone. Anche l’adozione può ovviare a questa situazione. Un figlio vuole semplicemente una famiglia, un luogo giuridico in cui far valere i suoi (pochi) diritti.


Il termine buliccio, come storpiatura, come diminutivo, suggerisce che possa essere pronunciato nei pettegolezzi fra le persone in attesa, in ozio, per identificare l’uomo non valido, alla cui donna qualcuno dovrà dedicarsi, per porre rimedio e ristabilire un ordine delle cose, un equilibrio artificioso e delicato che regge la comunità.

Per tutti questi motivi non è necessario, neppure per celia, inventare un termine per l’omosessualità femminile. La femmina può avere figli anche se omosessuale. La femmina, secondo certe credenze, non sarebbe altro che un solco di terra dove viene messo un seme (che ancora oggi in termine medico si chiama così) portatore di tutto il bagaglio genetico del padre. La femmina è poco più di un contenitore: deve star ferma un momento, avere un poco di pazienza, e il gioco è fatto. La femmina subisce l’atto, il maschio lo compie. Curioso poi che (talvolta) non ne sia responsabile. Ma quest’ultima digressione ci porta fuori tema.

Dicevo della femmina omosessuale, e del fatto che mancasse, in passato e in ambito popolare, un nome per designarla.

Soprattutto, vien da dire, i tempi cambiano. Non viviamo più in quelle comunità in cui la proprietà di un appezzamento o di un opificio, di un negozio era fondamentale. Perlomeno non tanto come un tempo.

 

Le famiglie di oggi sono tormentate da mille situazioni complicate, prime, seconde e talvolta terze nozze, con figli di una e dell’altra parte; da un mondo del lavoro severo e sempre di più inumano, che porta le persone a orari durissimi e scomodi; sollecitate da infiniti stimoli, dal sogno, dal progresso, all’inseguimento di una felicità irraggiungibile.

In quella società immaginaria di cui ho parlato, ogni famiglia era un centro di produzione. Oggi, la famiglia è diventata un centro di consumo. Siamo dei bersagli ben identificati da dirigere negli acquisti, nelle scelte sociali e politiche.

Mi pare doveroso, infine, che lo stato si curi di aggiornare le leggi in base ai cambiamenti della società.

Alessandro Marenco

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.