Netanyahu e non solo

“Israele non sta commettendo un crimine. Semmai lo sta commettendo il governo Netanyahu.  Bisogna saper distinguere!” 

Questo dice e sinceramente pensa tanta gente comune. 
Molti governi invece essendo più addentro alle cose magari non lo pensano, ma trovano però conveniente far proprio il leitmotiv che viene loro suggerito da oltreoceano: “Israele deve potersi difendere!” 
Così si tolgono dall’imbarazzo di doversi dissociare dagli USA riconoscendo come crimini di guerra quel che Israele fa a Gaza da 14 mesi, e come crimini di pace quel che non fa in Cisgiordania da 57 anni, cioè liberare i territori illegalmente occupati. 
E’ una formula comoda e ha il vantaggio di stemperare le critiche che verrebbero loro sollevate se negassero in maniera secca quel genocidio che ogni giorno diventa sempre più palese, perché è sotto gli occhi di tutti coloro che gli occhi non li vogliono chiudere e che, ricordiamo, ricorre, come si evince dalla dicitura ufficiale, anche facendo in modo che un gruppo etnico si frantumi e disperda in tanti individui irrelati e venga meno perciò la sua coesione.

“Israele deve potersi difendere!”  
Anche se è vero, ammettono, che Netanyahu dovrebbe pretendere dal suo ministro della Difesa e dal Mossad operazioni più chirurgiche, che non coinvolgano troppi civili innocenti.

Presentare le cose in questo modo, tuttavia, non riesce ad evitare che qualcuno si chieda chi lo ha voluto come premier Netanyahu nel 1996, e poi rivoluto nel 2009, e poi rivoluto ancora nel 2022  facendone il leader più longevo della storia di Israele.
Non sarà che se è ancora in carica, tutto sommato a una sostanziosa fetta dell’elettorato israeliano e della Knesset sta bene, sicché dati le sue idee e il suo agire politico da tempo conclamati, se ne può dedurre che in generale verso le sofferenze del popolo palestinese di empatia ce ne sia poca? O/e che un parafulmine per il cosiddetto lavoro sporco fa comodo per sentirsi puliti?

Dall’inizio del suo mandato fino al 7 ottobre ’23, i coloni in Cisgiordania non hanno mai smesso di prevaricare, intimidire, vessare ed umiliare i palestinesi in tutti i modi e di organizzarsi in spedizioni punitive per distruggerne le abitazioni ( recentissimi gli episodi del 4 dicembre scorso nei villaggi di Huwara e Beit Furik ) o i raccolti, e spesso sotto gli occhi dei soldati dell’ IDF compiacenti e a volte persino collaboranti, i quali invece avrebbero il compito di impedire tutto ciò. 
Vi sono video numerosi e inequivocabili al riguardo su Internet. 
E’ il modo subdolo che ha lo Stato israeliano di accaparrare terra senza formalmente dover ammettere che a farlo è l’IDF e che farlo rientra nei suoi piani, i quali poi in concreto sono quelli atti a sbarazzarsi dei palestinesi e insediarsi al loro posto, promettendo di andarsene quando si sarà bonificato il territorio fino all’eliminazione dell’ ultimo terrorista, cioè mai.
Perché che qualche terrorista sia ancora in circolazione si può sempre sostenere. D’altra parte una nazione che non abbia al suo interno cellule o singoli terroristi non esiste.

Se in Cisgiordania il metodo è questo, nella Striscia in cui è in atto una vera e propria guerra, il metodo varia dal non permettere l’entrata dai Valichi delle derrate alimentari, al bombardare gli ospedali ( solo venerdì 6 dicembre le vittime sono state 29 ), al colpire la fila di persone davanti ai centri di distribuzione del cibo ( l’ultimo caso si è avuto mercoledì 4 dicembre nel campo rifugiati di Nuseirat, dove tra i morti si contano anche 4 bambini ), al distruggere gli edifici scolastici, al procedere allo sgombero di case e, quasi sempre con pochissimo anticipo, ad intimare l’ennesima evacuazione da una certa zona dichiarata a rischio ad un’altra di cui si era ordinata l’evacuazione per lo stesso motivo la volta precedente ma in senso inverso, in un tragico surreale andirivieni che dovendo comportare il trasporto delle masserizie e dell’intera famiglia dove difficilmente mancano gli anziani e i bambini ( le famiglie palestinesi sono in genere numerose ) e, data la situazione che si trascina dall’ottobre ’23, malati e feriti, sembra fatto apposta per condurre all’esasperazione e allo sfinimento fisico, alla resa e in ultimo alla rinuncia della terra, così come previsto dal cosiddetto “Piano dei Generali”, in cui l’ assedio e la deprivazione del cibo sono funzionali all’evacuazione del nord della Striscia.

Israele sostiene altresì che il suo diritto a difendersi gli deriva dall’idea proclamata in ogni manifestazione dai pro-Palestina con cartelli e cori, del motto identitario “From the river to the sea”, che senza mezzi termini dichiara l’intenzione non solo di riappropriarsi delle zone occupate, ma anche della parte che l’ONU nel 1947 ha destinato allo Stato nascente di Israele. 
Ora, senza fermarci a discutere su quanto sia stata opportuna ed equilibrata la decisione delle Nazioni Unite e chi abbia eventualmente favorito, una cosa salta agli occhi: non è quantomeno originale per una nazione lamentarsi di essere minacciata ( e data questa minaccia ritenersi autorizzata ad avere mano libera con una reazione violenta ) da quelle persone che scandiscono “From the river to the sea” [ “dal fiume ( Giordano ) al  mare ( Mediterraneo )” ] quando in seno alla loro stessa nazione ve ne sono altrettante per le quali la terra è rivendicata “From the river to the river” [ “dal fiume ( Nilo ) al fiume ( Eufrate ) ” ]? Ovvero un’area almeno una dozzina di volte più vasta della precedente e che significherebbe conquistare oltre Gaza e la Cisgiordania, la Giordania, il Libano, parte dell’Egitto e la maggior parte della Siria. 

E questo perché secondo kahanisti, coloni, suprematisti ebraici, sionisti religiosi e altri ancora fra cui “I giovani delle colline” e gli estremisti Lehava, al patriarca Abramo glielo aveva detto Dio ( Bibbia, Genesi 15, 18-21 ) più di 3500 anni fa.      

Fulvio Baldoino

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