NELLA TESTA DI TRUMP
Nei primi anni ’60, mi venne fatto di chiedere al direttore della multinazionale per cui lavoravo, noto economista, per quale motivo tutte le nazioni sgomitavano per esportare l’un l’altra le proprie merci, anziché favorire il mercato interno. La sua risposta fu alquanto salomonica, appellandosi al fatto che ciò avvantaggiava la nostra bilancia dei pagamenti, senza risolvere il nocciolo della mia domanda: anche con scarsi scambi con l’estero, purché più o meno equivalenti in entrata e in uscita, la bilancia sarebbe rimasta comunque alla pari. Il direttore ribatté che il libero scambio di merci tra le nazioni avrebbe consentito a ciascuna di produrre ciò che era più consone alle sue capacità, in un clima di generale ottimizzazione produttiva delle merci, col risultato di un maggior progresso a livello globale.

Trump e Vance nelle due foto ufficiali. Il duetto sta mettendo in pratica misure economiche, e non solo, in collisione di rotta con quelle a cui siamo stati abituati. In pratica, l’estremismo al potere, nella solida tradizione della destra degna del nome, che non usa mezzi termini. In stile anni ’30 del ‘900, o ancora più a ritroso, nei secoli feudali
Due visioni del mondo antitetiche che, con il successivo affermarsi della visione liberal, anzi neoliberista, decretarono la vittoria della globalizzazione, esasperando, con dazi irrisori, i liberi scambi di merci (e di persone) a livello planetario, avallando la soluzione enfatizzata dal mio direttore tanti anni prima.
Contro questa formula, invece, si schierò, sin dal suo primo mandato, Donald Trump, sulla base di ragionamenti, che tradivano, e a maggior ragione, tradiscono oggi, una forte nostalgia degli anni ’50 e ’60, quando l’America vantava un primato produttivo interno di forte impatto, anche emotivo. Per inciso, io ho vissuto un anno, tra il 1962 e 1963, proprio a cavallo tra USA e Canada, e ricordo vividamente quel clima, che della produzione vedeva solo il lato positivo, con Detroit che sfornava auto sulla base del motto fordiano (“bigger cars make bigger profits”, maggiori le dimensioni delle auto, maggior i profitti). Si respirava un’atmosfera improntata all’entusiasmo, nella prospettiva di un progresso infinito.
Trump, di qualche anno più giovane di me, ha vissuto quegli anni, e su questa nostalgia ha addirittura calibrato il suo slogan elettorale MAGE Make America Great Again. Ed è proprio quell’again che dice più di mille parole.
Con questo obiettivo in testa, si è dato ad analizzare le cause del declino industriale della “sua” America.

Se tutti accettano dollari, stampabili ad libitum, perché non smettere di produrre in casa e far lavorare gli altri? Questa formula, perseguita per decenni, ha spinto però molte aziende americane, pena chiusura, a delocalizzare, per contrastare la concorrenza, portando negli anni alla insostenibile situazione attuale, con un mostruoso debito pubblico, fabbriche chiuse, disoccupazione e dollaro debole. La cura da cavallo di Trump potrebbe essere l’unica, drastica via d’uscita
Tanto per cominciare: la delocalizzazione di fiorenti industrie all’estero. Il capitalista Trump doveva riconoscere che questo indirizzo era in linea con il più gretto capitalismo: obiettivo primo il profitto. Ma perché delocalizzando il profitto cresceva? Sostanzialmente per due motivi: basso costo della manodopera e normative ambientali molto blande.

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Non era una questione di materie prime: l’America è ampiamente auto-sufficiente, anche sul fronte energetico, dopo la messa in atto dell’estrazione di gas e petrolio dagli scisti bituminosi; la cui devastazione ambientale, però, era tenuta a freno dalle amministrazioni democratiche, che regolavano anche l’allegra trivellazione sottomarina, artica e in Alaska.
Nel contempo, questa fuga delle aziende, troppo vincolate dalle leggi in patria, aveva come rovescio una parallela disoccupazione per la chiusura di tante fabbriche e miniere (principalmente nella rust belt, che ha impoverito tanti Stati del Mid West, ma non solo).
Il declino della produzione domestica ha comportato un enorme sbilancio dei pagamenti verso l’estero, per l’accresciuto volume delle importazioni; e di conseguenza un’enorme crescita del debito pubblico. Debito che veniva “placato” dall’acquisto di Buoni del Tesoro (treasuries) da parte delle nazioni esportatrici, con l’esborso verso l’estero dei relativi interessi. In pratica, l’America era potenzialmente autosufficiente come materie prime, ma insieme fortemente dipendente finanziariamente dai Paesi esportatori, che accumulavano ingenti quantità di treasuries, in sostanza di debito americano, che ha finito per diventare uno strumento di ricatto in mani altrui.

Detroit. Parte dell’Henry Ford Museum. La città, simbolo dell’industria automobilistica americana, mostra qui con orgoglio i vari modelli succedutisi negli anni d’oro, con l’auto protagonista indiscussa della vita degli americani. La crisi iniziò negli anni ’70, fino alla dichiarazione di bancarotta più ingente di una municipalità americana, nel 2013. [VEDI] Trump si strugge nel riandare a quei tempi epici e si prefigge di invertire il declino, comune a tante città USA, per “fare l’America di nuovo grande”
Un caso emblematico era stato la florida General Motors, prima fabbrica automobilistica americana, che aveva istituito un suo proprio fondo pensioni. Ebbene, l’assottigliamento costante del personale, a causa dello sciamare di auto straniere sulle strade americane e il conseguente calo delle vendite, aveva reso impossibile pagare le numerose pensioni con i contributi dei pochi lavoratori rimasti.
Eppure, nonostante queste avversità, gli USA hanno continuato a comportarsi come nulla fosse accaduto, con enormi spese per la macchina burocratica federale (che non aveva seguito il destino di tanti lavoratori privati) e per le spese militari, dovute agli impegni globali, per tener viva l’immagine di “gendarmi del mondo”. E gendarmi non solo grazie allo sfoggio di armi, ma anche di sanzioni verso le nazioni non prone ai diktat americani. Si è arrivati addirittura al sequestro di ingenti fondi russi depositati in banche occidentali per contribuire alle spese della guerra in Ucraina, contro la stessa Russia!
Sanzioni e sequestri che hanno indignato e spaventato quanti avevano messo i propri guadagni a sostegno del debito americano o in sue banche, incentivandoli a procedere a massici rientri. Rientri che hanno progressivamente scemato la propensione all’acquisto di treasuries, ingenerando così la lievitazione degli interessi offerti per stimolarne l’acquisto, con ulteriore crescita del debito. Nonostante i generosi rating delle agenzie di valutazione, l’entità del debito e degli interessi pagati forniva un quadro ben diverso della realtà.

FIRE: acronimo di Finance Insurance Real Estate (Finanza, Assicurazioni, Edilizia speculativa). Per Trump sono queste le piaghe dell’America, per cui auspica un ritorno pre-anni Ottanta, quando il FIRE cominciò ad espellere all’estero la produzione di beni reali. [VEDI]
Egli ha dunque inaugurato un rovesciamento dell’attuale assetto commerciale internazionale, attraendo i “fuggiaschi” verso il rimpatrio e proteggendoli, una volta tornati sul suolo nazionale, con vistosi contributi e dazi sulle merci d’importazione: uno strumento messo in soffitta nei precedenti decenni improntati al globalismo e al FIRE. Il motto NO GLOBAL è stato fatto proprio alla grande da Trump, non saprei con quanta soddisfazione di coloro che sfilavano brandendo cartelli in quella direzione.

13-17 marzo 2001. Napoli lancia il termine NO GLOBAL. Se mai i manifestanti avessero saputo che, 24 anni dopo, questa politica sarebbe entrata di prepotenza alla Casa Bianca!
In sostanza -pensa Trump- abbiamo le materie prime a noi necessarie; e per renderle ancora più convenienti, riduciamo o aboliamo le misure esistenti a protezione dell’ambiente. Richiamiamo in patria quanti hanno delocalizzato e proteggiamoli dalla concorrenza estera con una robusta barriera daziale e sostanziose agevolazioni. Me ne infischio se ciò determinerà una ritorsione generalizzata, con dazi all’importazione di beni americani: quei beni li produrremo e consumeremo in patria, in una rinnovata autarchia, in un isolamento auto-sufficiente. Non abbiamo bisogno di nessuno. Quanto all’Europa, ha vissuto per decenni sommergendoci con i suoi prodotti, mentre si faceva proteggere militarmente [resta da capire da chi, NdA] a spese nostre. D’ora innanzi dovrà provvedere a se stessa: non è immaginabile che un intero continente, che si spaccia come coeso, all’insegna dell’UE, sia privo di un esercito atto a difenderlo.
Infine, guerra alla pletorica macchina amministrativa statale: non produce altro che scartoffie e leggi, poi usate dai giudici per ostacolarci la strada. E anche la giustizia va rinnovata, nel senso che non deve disturbare il manovratore. Vedi gli eccessi delle magistrature, non solo qui negli USA, ma anche altrove, vedi ad es. in Italia e, pochi giorni fa, in Francia, con l’eliminazione dalla corsa elettorale di Marine Le Pen.

Castello di Leeds, UK. Da roccaforte normanna a residenza reale, a partire dal 1278. Potrebbe essere il simbolo dell’America-reame vagheggiata da Trump: ben protetta da un laghetto circostante, come l’America da due oceani, che la isolano dai nemici esterni. In un eccesso di auto-protezionismo, Trump vorrebbe addirittura inglobare Groenlandia e Canada. Si tratta di un netto feudalesimo di ritorno, in versione yankee
Insomma, Trump ha capovolto tutte le regole sin qui in vigore, preoccupando anche i famosi “mercati”, in caduta libera a Wall Street e in tutte le Borse di nazioni con un forte avanzo commerciale verso gli USA. E non ha avuto riguardi neanche verso “mostri sacri” come Jeff Bezos (già da anni inviso a Trump perché si arricchisce importando in patria merce prodotta all’estero), Bill Gates e persino il suo grande elettore Elon Musk.
Tutto sommato, comprendo il neo-isolazionismo di Trump, come tentativo disperato di riportare l’America ai fasti passati. Se fosse ancora in vita Niccolò Machiavelli, direbbe al novello Principe che c’è però ancora almeno un fattore di ostacolo al suo progetto: la grande disparità tra salari e stipendi americani e di altri Paesi. Ciò, a meno di bastonare anche gli agguerritissimi sindacati americani, comporterà comunque un aumento dei prezzi al consumo, ossia inflazione, in aggiunta a quelli dovuti per le merci che, a dispetto dei dazi, verranno comunque importate, in quanto indispensabili: pensiamo solo a molti lantanidi (terre rare).

Il toro di Wall Street è infuriato? Poco male -pensa Trump- sono stanco di un’America che vive di sola finanza. Con la finanza mangiano solo CEO e trader, non i cittadini. Voglio il ritorno delle fabbriche e meno grattacieli di carta
Peraltro, il ricorso ai dazi sembra far male al dollaro, avendo accentuata la tendenza, già in atto da tempo, di disfarsene come valuta di riserva da parte delle banche centrali, sostituendolo massime con l’oro. Il mood spingerebbe a disfarsene del tutto, se non fosse che questo renderebbe il dollaro mera carta straccia, danneggiando gli stessi venditori. E dire che Trump ha varato i dazi in parallelo a vibranti dichiarazioni in difesa proprio del dollaro, minacciando di sanzionare al 100% le nazioni che se ne vogliono disfare (Peraltro, l’attaccamento di Trump al dollaro forte è alquanto contraddittorio, legato al mero prestigio: il dollaro debole è tale solo nei confronti delle altre valute. Ma se Trump vagheggia un’America chiusa, con limitatissimi scambi con l’estero, il dollaro sarebbe eminentemente una divisa interna, indifferente al cambio esterno, e la sua valutazione nei confronti di euro, yen, etc., sarebbe irrilevante. Certo, non si fregerebbe più del blasone di valuta di riserva; ma non si può volere una cosa e insieme il suo contrario)…
Marco Giacinto Pellifroni 6 aprile 2025