Mussolini ha fatto anche cose buone, o…

Mussolini ha fatto anche cose buone
O Mussolini ha fatto un unico sbaglio

Mussolini ha fatto anche cose buone
O Mussolini ha fatto un unico sbaglio

 Non amo le librerie, zeppe come sono di paccottiglia, narrativa stomachevole, non solo quella nostrana, saggistica insulsa in cui manca un’idea originale, lo spirito critico è latitante, l’alternativa alle banalità e ai luoghi comuni sono assurdità deliranti. Quando vedo i nomi degli autori, giornalisti di regime, rottami della politica, ministri vanitosi – aspettiamoci da un giorno all’altro anche Conte, che come accademico non ha prodotto nulla degno di nota – mi convinco sempre più che le grandi case editrici hanno rinunciato del tutto alla loro funzione educativa per dare il colpo di grazia al libro e, col libro, alla parola, gonfia d’aria come panna montata, vacua, senz’anima, senza mordente, incapace di scuotere e di provocare, flatus vocis. Non amo le librerie per quanto viva in mezzo ai libri e ne avverta il respiro e per loro tramite la presenza del passato e dei grandi del passato;  mi rilassano e rassicurano perché so che racchiudono la riposta alle mie domande mentre ne suscitano di nuove, stimolano e soddisfano la mia curiosità in un modo che la rete non potrà mai uguagliare. Con gli anni ciò che fra loro c’era di inutile o caduco è finito nelle seconde file degli scaffali, è diventato un peso morto o un ramo secco che non ho il coraggio di tagliare e buttar via ma ciò che c’era di vitale è cresciuto, si è espanso, ha preso il sopravvento a mano a mano che sono diventato più avaro del mio tempo e meno disposto a dissiparlo con qualcosa che non mi sia utile.  Insomma sono diventato un lettore pigro, taccagno e interessato ma l’essere circondato di libri mi appaga  assai più degli oggetti che segnano il raggiungimento del benessere. Se però metto piede in una libreria il fascino del libro scompare e mi rimane solo l’odore della cellulosa.

 


Ma qualche tempo fa, un po’ prima che scoppiasse l’emergenza dell’epidemia, trovandomi  a girovagare in un centro commerciale in attesa che mia moglie ultimasse i suoi acquisti, ho vinto la mia riluttanza e il timore di incontrare qualche vecchio collega. Fra Vespa, Di Volo, Saviano, Franceschini, cattedrali del mare, folletti e sempreverdi tre metri sopra il cielo, attratto dal titolo, mi metto a sfogliare “Mussolini ha fatto anche cose buone” di un certo Filippi, presentato come animatore a disposizione di insegnanti che evidentemente da soli non sono in grado di animare le loro lezioni. 

La letteratura su Mussolini, sul fascismo e sul ventennio mussoliniano è sterminata. In buona parte è viziata da pregiudizi di parte,  in qualche caso si tratta di storia minore, di curiosità, pettegolezzi, gossip, come ora si dice, ma sono centinaia le monografie e i saggi  scrupolosamente redatti da studiosi ineccepibili. Sicuramente al riparo dall’agiografia e dalla faziosità è l’opera monumentale di Renzo De Felice, che rimane tuttora un passaggio obbligato per chiunque voglia dipanare il filo della memoria. 

Allo studente, e all’insegnante,  che non si accontentano delle informazioni necessariamente sommarie di un manuale scolastico non resta quindi che l’imbarazzo della scelta e probabilmente l’uno e l’altro dopo essersi documentati si faranno un’opinione  personale meno arbitraria;   e, quando alle fragili basi del sentimento – e del pregiudizio –  si sarà sostituito il solido fondamento del raziocinio e della documentazione, non avranno più motivo per rimpiangere un passato morto e sepolto né per continuare a menare fendenti contro i fantasmi.


Mussolini è un personaggio complesso, era un uomo dalla personalità incredibilmente forte, dotato di un carisma straordinario, capace di sedurre protagonisti del ventesimo secolo lontani fra di loro per formazione, vocazione, cultura  come Gabriele D’Annunzio, il mahatma Gandhi, Pio XI, Winston Churchill o Adolf Hitler (che non era il diavolo, detto per inciso). E, come accade per tutte le grandi personalità del passato, nessuna esclusa, solo da morto e in abstracto il Duce viene definito, fissato, irrigidito come una statua o una maschera mortuaria. La vita è un’altra cosa, è cangiante, mutevole, sfaccettata e il giudizio che si può dare dell’uomo in un momento determinato non regge allo scorrere del tempo e degli eventi. In uno di questi Trucioli mi è capitato di scrivere che la Russia con  il colpo di mano bolscevico era caduta nelle mani di una banda di  criminali ai quali Lenin aveva aperto la strada. Ma sarei un mentecatto se pensassi veramente che Stalin, come uomo e come politico, possa essere liquidato semplicemente come criminale. Significherebbe fissare la sua vicenda terrena e la sua essenza di uomo in certi determinati atti scopertamente criminali dimenticando la complessità delle interazioni fra la volontà individuale e le circostanze, dimenticando le sfaccettature, le contraddizioni e i conflitti che si agitano in ogni persona e che il potere e la sovraesposizione inesorabilmente accentuano. Se sposto l’attenzione sullo studente Joseph Vissarionovic vedo un giovane volitivo, insofferente, desideroso di fare grandi cose per sé e per la sua terra. Uno che non somiglia per niente al mandante dell’assassinio della moglie o al paranoico tiranno le cui decisioni costarono la vita a milioni di ebrei e di contadini ma nemmeno al capo di Stato che qualche merito ce l’ha avuto se la guerra fredda non è diventata calda.  Detto questo, se guardo a ciò che era e prometteva di diventare la Russia al tramonto dell’autocrazia zarista e ciò che è stata l’Unione sovietica, la mia è una condanna inappellabile del sistema e dell’uomo che l’ha incarnato. E in questo bilancio mi pare consista un giudizio politico attendibile.


Se applico il medesimo criterio al Duce e al regime fascista (che in realtà era una diarchia) e confronto le condizioni economiche, sociali, culturali dell’Italia prefascista con quelle dell’Italia fascista e postfascista che cosa dovrei concludere? E che cosa dovrei concludere sulla sinistra se confronto le condizioni dell’Italia democristiana con ciò che l’Italia è diventata da quando i compagni sono entrati nella “stanza dei bottoni”? Eppure non conosco altro criterio per giudicare della bontà di un regime politico.

L’Italia deve ritrovare la sua identità senza ricorrere a mezzucci, surrogati e bagni di retorica come si son visti nel passato per qualche competizione sportiva o come si vedono  negli attuali stupidi, inopportuni e interessati richiami all’unità nazionale sotto l’incubo del coronavirus, con tanto di esposizione di  bandiere arcobaleno e l’immancabile Bella Ciao. E l’identità, nella vita delle nazioni come in quella degli individui, è anche e soprattutto memoria, storia collettiva e storia individuale al riparo dai giudizi sommari e dalle condanne. C’è, inevitabilmente, nei passaggi critici, il momento delle scelte e, di conseguenza, del confronto e della polemica, aspra quanto si vuole; e quando quel momento è passato dovrebbe rimanere solo la consapevolezza spassionata di quel che è stato. Ma il problema del nostro Paese è che le forze cosiddette di sinistra, politiche e sindacali, sono state esattamente il contrario di ciò che davano a intendere di essere: solidali col sistema che dicevano di voler abbattere, complici del padronato al quale fingevano di contrapporsi, ottusamente conservatrici e misoneiste dietro le aperture di comodo alle trasgressioni radical-chic, pronte all’abbraccio con la parte più retriva della società, fervidamente innamorate dell’Europa e dell’economia globalizzata e al servizio, loro direbbero al soldo, dei peggiori nemici dell’Italia e degli italiani. E quelle forze, prive di uno straccio di progetto politico e culturale, hanno cercato di riempire il loro vuoto e di coprire il loro tradimento perpetuando quel momento, cristallizzando una contrapposizione e un’epoca sepolte dal tempo, continuando a imporre, a distanza di un secolo, lo scontro fra rossi e neri trasformato nella lotta fra il Bene e il Male. 


Se ogni anno qualche migliaia di uomini e donne si organizzano per onorare a Predappio la memoria del Duce sono affari loro; la democrazia non corre alcun pericolo. Se, per scherzo o nostalgia, si leva il braccio nel saluto romano chi viene danneggiato? Forse quel gesto riapre antiche ferite? Non facciamo ridere: i padri e i nonni di quelli che si scandalizzano riempivano le piazze in camicia nera. E se anche così non fosse, ma così è, prendersela con i simboli è ancora più stupido che rimanere attaccati ai simboli. Quello che piuttosto deve preoccupare è che ci siano ancora “compagni che sbagliano” che mandano in giro lettere esplosive in attesa dell’occasione buona per tornare alle bombe. Per una di queste esibizioni di lotta proletaria, nel silenzio di tomba dei media, un ufficiale della Folgore qualche anno fa ci rimise la mano. Mi piacerebbe sapere con quanta solerzia si è data la caccia ai responsabili, rimasti impuniti.

Il terreno sul quale si ricompone il conflitto e il passato diventa memoria condivisa è la scuola, e sullo storico pesa la responsabilità di dissodarlo e arricchirlo di nuova linfa. Lo storico, che, nonostante quello che pensano illustri personaggi tenacemente attaccati alla loro vicenda personale, è per natura un revisionista, come “revisionista” è la nostra personale memoria. 


Ma ora per riannodare il filo della memoria irrompe nella letteratura mussoliniana questo Francesco Filippi con il suo Mussolini ha fatto anche cose buone. Non bastava la damnatio memoriae a cui l’hanno condannato i Custodi  della Resistenza, ci voleva qualcuno che rendesse più nitido, preciso e reciso il giudizio sull’uomo e sul politico, riducendolo a un tiranno sanguinario, un’accusa tanto scomposta, infondata e ridicola che per rimbalzo trasforma il Duce nella reincarnazione dell’amor et deliciae humani generis. Del resto c’era già stato uno “storico” per il quale Mussolini aveva mandato al macello i combattenti di El Alamein. Peccato che i reduci, e lo posso testimoniare, la pensassero in modo un po’ diverso: “mancò la fortuna, non il valore” (e se proprio si vuole un esempio di capi che hanno mandato sconsideratamente al macello i loro soldati si studi la storia e si guardi alle battaglie sul fronte dell’Isonzo). 


Ma le preoccupazioni dell’aspirante storico e formatore (?) sono altre. Lui vuole smontare le fake news che circolano sul ventennio, quelle sottese al pregiudizio diffuso “ha fatto anche cose buone”, perché vuole che sia chiaro una volta per tutte che alla faccia di De Felice, Petacco o Lepre, per dire dei primi che mi vengono in mente, la buonanima è stato solo “uno spietato dittatore”. E allora giù a smontare, si fa per dire, la politica a sostegno dei lavoratori, le bonifiche, i rimboschimenti, la fondazione di città, lo slancio impresso all’economia agricola e all’industria, il sostegno alla scuola e alla ricerca, l’eliminazione della mafia. La prima cosa da osservare è che al Filippi, descritto anche come “storico della mentalità” (?) sfugge il fatto che lo stereotipo “ha fatto anche cose buone” è roba vecchia. Circolava negli anni Ottanta e proveniva da ambienti di sinistra. Oggi, grazie alle condizioni in cui si è trovata la stragrande maggioranza degli italiani e nonostante l’indottrinamento scolastico, è più diffuso lo stereotipo opposto: “ha fatto un solo sbaglio”, e lascio indovinare quale. I compagni si dovrebbero interrogare sul perché di questo capovolgimento di prospettiva e quando gli editorialisti dei giornaloni registrano il diffuso bisogno di un uomo forte dovrebbero avere anche il coraggio di riconoscere che il paradigma dell’uomo forte è proprio il Duce.


Quando in democrazia si sogna un regime autoritario significa che la democrazia è morta o non è mai nata. Ma per il Filippi l’importante è smentire la bufala secondo la quale il sistema previdenziale l’ha inventato Mussolini o stabilire che le bonifiche erano state avviate assai prima dell’avvento del fascismo e che i treni non erano così puntuali come si è fatto credere. Potrei aggiungere che le mani sulla Libia ce le aveva messe Giolitti e che Mussolini ha solo completato l’opera. Che senso ha tutto questo mi sfugge e mi preoccupa che all’interno di Repubblica si sia farneticando sull’ipotesi di fare adottare il libro nelle scuole. A volte mi sembra di vivere in un incubo. 

Cerco di essere più esplicito: nonostante il lavoro immane compiuto da De Felice e le centinaia di saggi che lo precedono e lo seguono c’è ancora molto da scoprire su Mussolini e il fascismo e sono tuttora aperte questioni molto più serie delle presunte bufale smascherate dal Filippi. Chi o che cosa ha spinto il Duce dopo un anno di saggia neutralità a entrare in guerra? Si dice perché ormai la Germania aveva vinto e ci si poteva sedere al tavolo dei vincitori senza aver sparato un colpo; a me è sempre sembrata una sciocchezza. Più plausibile la paura di perdere il consenso plebiscitario di cui Mussolini godeva, perché una parte considerevole dell’opinione pubblica smaniava, ansiosa, come era accaduto un quarto di secolo prima, di menar le mani; e il ruolo del re? Sicuramente era tutt’altro che un pacifista, sulla scia dei suoi antenati  e nella tradizione militarista  dello Stato sabaudo. Per la pressione di Hitler?  Ma che vantaggio ne avrebbe ricavato? O, più verosimilmente, per quella di Churchill, i cui rapporti con Mussolini sono avvolti nel mistero? Sarebbe sconsolante dover concludere che l’Italia è entrata in guerra per la paura di Mussolini di compromettere l’immagine che gli italiani si erano fatta di lui e che egli stesso aveva incoraggiato.  E il mistero mai definitivamente risolto di Giulino di Bezzecca? Da chi partì veramente l’ordine di ammazzare il Duce? Poi c’è da chiedersi per quale motivo gli alleati rifiutarono le proposte italiane di una pace separata. Forse ci furono pressioni da parte di qualcuno che aveva interesse a far crollare non solo il regime ma l’intera compagine dello Stato italiano? In questo caso i bambini morti nella scuola di Gorla e tutte le vittime dei bombardamenti alleati fra il 43 e il 45, protrattisi in Dalmazia anche a guerra finita, nonché i morti di ambo le parti nella guerra civile, saprebbero chi ringraziare.

  Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

 

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