Mala tempora currunt

Rispondendo all’amico Pellifroni mi è venuto da scrivere che il marcio della politica, dei media e di quanti a vario titolo occupano posizioni privilegiate non ci lascia scampo e ci toglie ogni prospettiva di riscatto. Ho ripensato a queste parole e alle obiezioni che mi si possono muovere.  La prima è quella che viene rivolta a tutti i rancorosi che per età, per frustrazioni, per uno smacco sono portati a denigrare il mondo da cui si sentono estromessi o al quale non riescono più  ad adattarsi. “O tempora o mores”, esclamava Cicerone proprio quando la civiltà romana viveva il suo periodo di maggiore splendore; un secolo e mezzo dopo Tacito  ne imputava l’inarrestabile decadenza al principato, lo stesso  che l’avrebbe fissata in aeternum. Entrambi semplicemente si sentivano scavalcati dai tempi. Come Dante, finito fra i perdenti ed espulso dalla sua città, che fa della sua personale sconfitta politica la sconfitta dell’Italia intera, da ‘donna’ di province ridotta a ‘bordello’.

Il rischio è sempre quello: finisco io finisce il mondo, tutto va in rovina, se io non ho più futuro è il mondo che non ha futuro.

La coscienza di questo rischio è però di per sé un antidoto che aiuta anche a vedere come il pessimismo dei grandi del passato non abbia niente di rinunciatario ma sia mosso da un’energia attinta proprio nel presente.  Cicerone, come Tacito, come il sommo poeta sapevano di vivere in tempi comunque “eroici” e che la forza del loro pensiero poggiava sulla certezza del futuro. Erano insomma testimoni  del loro tempo, critici quanto si vuole, ma soprattutto garanti della solidità e della continuità .di una civiltà che il contingente per quanto apparisse loro esecrabile non sarebbe riuscito a scalfire .

È così anche oggi?  Oggi che le testimonianze del passato sono soltanto rovine di un’antica civiltà sempre più estranea, semplici reperti archeologici. Se si tenta di dar loro vita, di riappropriarcene, di imporle per quello che sono, la nostra storia, la storia della nostra Patria, ti guardano con sospetto, non capiscono o, se capiscono,concludono che sei un fascista. È stato fatto di tutto per togliere il latino dalle scuole; quel che ne resta è immiserito, di volta in volta ridotto a storia letteraria o a studio grammaticale di una lingua morta. Guai ricordare che il latino e l’italiano coincidono perché l’italiano è il nuovo latino, l’evoluzione del latino  e nella romanità affondano le nostre radici ed in essa è riposta la peculiarità del nostro essere italiani.

Ma è normale tutto questo? Qual è il popolo che rimuove la propria identità, che si svuota della propria essenza, smania di identificarsi con gli immigrati, si esalta per la patria degli altri, ieri l’America della Coca Cola o in alternativa il paradiso comunista dell’Unione sovietica oggi l’Ucraina delle croci uncinate  e cancella venti anni della propria storia buttando via col fascismo un’irripetibile stagione culturale.

Si è progressivamente affermato un misto di masochismo e di disfattismo, alimentato dall’ignoranza, dal furore ideologico, da una diffusa carenza di senso civico e morale e, perché negarlo, da semplice deficit di strumenti cognitivi.

In questa prospettiva lo smottamento della scuola, il livello infimo della politica, il vuoto spinto in ambito artistico e letterario, la marginalità della ricerca scientifica non sorprendono come non sorprende l’esterofilia delle grandi famiglie imprenditoriali, la cialtroneria della borghesia più agiata e l’origine opaca dei patrimoni. Perfino la lingua risente di questa deriva. Non è bastata la soppressione di forme verbali o strutture sintattiche, gli esponenti di quella borghesia agiata, compresi cattedratici e politici di alto livello, commettono madornali errori di dizione come bóschi al posto di bòschi o si perdono in ridicole tautologie come il ricorrente ‘possibilità di poter. ’ L’ultima perla è l’incapacità di leggere numeri a più cifre, un ostacolo insormontabile. In compenso continua il ricorso massiccio a inutili anglicismi, per di più da parte di gente che conosce l’inglese come una vacca spagnola (mi si passi la contaminazione del vecchio detto transalpino).

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In un giornalista e in chi ricopre ruoli di rilievo è imperdonabile l’ignoranza ma assai più grave è  il fingere di sapere qualcosa che non si conosce o fingere di non sapere quel che si sa. Ed è quello che constato nei servizi giornalistici sugli ultimi sviluppi della crisi in medio oriente, sulla quale c’è una convergenza di tutte le testate (con la parziale e ambigua eccezione del Fatto Quotidiano) nell’attribuire alla Russia un ruolo attivo nella destabilizzazione dell’area. Una acritica adozione del punto di vista americano, ovviamente interessato, che però in America deve fare i conti con la presenza di una stampa libera, e un rovesciamento spudorato dei fatti.  La primavera araba aveva due obbiettivi principali: rovesciare Gheddafi e liberarsi di Assad per fare della Siria una testa di ponte verso l’Iran. Assad si è salvato grazie al sostegno popolare, alla diplomazia russa e alla titubanza di Israele che con la sua caduta correva il rischio di mettersi alle porte di casa un nemico più pericoloso di quello sciita.  Ma l’occidente non molla la presa  e col concretizzarsi di un’alternativa multicentrica al monopolio del dollaro la Siria anche se politicamente indebolita è tornata ad essere un ostacolo da rimuovere, questa volta col pieno accordo  di Israele  scopertamente schiacciata sugli interessi economici e finanziari americani, evidentemente coincidenti con i suoi –  tanto da far pensare ad un’unica testa che non è né a Washington né a Tel Aviv  ma a  Wall Street – e accecata dal sogno di una Grosse Israel da espandersi in tutte le direzioni.  Il diritto internazionale non esiste più: il Libano viene bombardato e invaso, alla sua popolazione si intima di sloggiare, si attacca con missili la capitale iraniana, si progetta senza pudore la distruzione delle sue centrali nucleari, si colpisce l’ambasciata persiana a Damasco, si parla tranquillamente di bombardare l’Iraq.  Con tutto ciò la stampa italiana vaneggia di manovre russe nel medio oriente, quando è chiaro che se l’incendio non è ancora divampato è per l’equilibrio dimostrato dagli ayatollah e dalla prudenza di Putin, messa a dura prova dalle provocazioni americani. Gli americani che d’accordo con Israele hanno falcidiato le truppe irachene accorse in aiuto dell’esercito siriano per impedire che si riorganizzi dopo la presa di Aleppo da parte dei terroristi islamici.  E la stampa italiana non trova di meglio che ricordare che Assad è un dittatore a capo, come Saddam Hussein, di un partito nato all’ombra del fascismo.  Surreale a questo proposito, l’analisi di Fiamma Nirenstein sul Giornale di qualche giorno fa.

Intanto i giornaloni, dalla Stampa al Corriere nelle loro versioni on line danno consigli su come comportarsi nelle prime 72 ore di conflitto nucleare e veramente mi prudono le mani se penso anche alla funzione non solo di corretta informazione ma di apertura culturale che dovrebbe avere il giornalista. Ma come si fa a considerare realistica la prospettiva di una guerra nucleare e a farneticare di rifugi e precauzioni per sopravvivere?  sopravvivere dove, come, a che cosa? Piuttosto dovrebbe essere chiaro a tutti, e i mezzi di comunicazione dovrebbero contribuire a renderlo ancora più chiaro, che le guerre sono un retaggio del passato che l’evoluzione scientifica e tecnologica ha reso incompatibile con l’umanità.  Davanti alla possibilità che i governi ci trascinino nella catastrofe il popolo italiano e tutti i popoli europei si debbono preparare a insorgere e fare piazza pulita della politica.  Già considero uno sconcio che si guardi ai conflitti, e, in particolare a quello ucraino, con una stupida partigianeria che rasenta il tifo sportivo; se poi penso che ad alimentarli sono i fabbricanti di armi e che ci sono milioni di persone che si fregano le mani perché il valore  delle azioni in loro possesso continua a levitare e sono terrorizzate quando la prospettiva di negoziati di pace ne minaccia il crollo  mi convinco ancora di più che questi che stiamo vivendo sono veramente tempi bui.

Allora no, il mio non è rimpianto senile di un passato migliore ma banale constatazione della degenerazione della democrazia, del mercato, dei rapporti fra Stati e che il progresso delle conoscenze non solo non ha promosso l’intelligenza dei singoli individui ma ha contribuito a farne una massa instupidita di fruitori passivi e di cinici spettatori delle tragedie altrui, incapaci di capire che sono il prodromo dell’Armageddon se non se ne fermano mandanti e esecutori.

Pierfranco Lisorini

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