Maciste in camicia celeste: l’epilogo grottesco della sinistra in gita scolastica
Maciste in camicia celeste: l’epilogo grottesco della sinistra in gita scolastica
Come in un film surreale di Buñuel in salsa romagnola, i leader della sinistra italica — con l’occhio lucido e la mano sinistra ben posata sul cuore progressista — si sono dati appuntamento davanti alle telecamere per recitare il più tragico dei drammi post-referendari: “Non abbiamo perso, abbiamo semplicemente… non vinto”. Una declinazione retorica degna dei più acrobatici ministri della verità orwelliana. Lacrime di coccodrillo, sì, ma con lo sguardo che brilla all’idea di aver schivato un’altra gabbia elettorale e di potersi rintanare di nuovo nel comodo mondo dei convegni UNESCO sull’inclusività climatica delle salamandre.

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Dietro le quinte, tuttavia, pare si brindasse con Champagne francese e tartine vegane ai ceci di Lampedusa. Il gota progressista tirava un sospiro di sollievo: “Per fortuna che è andata male. Un’altra vittoria così e siamo rovinati”, confessava, pare, un notabile dem mentre passava la coccarda “SÌ” alla storia, usandola come sottobicchiere.

Maurizio Landini
Nel frattempo, il povero Maciste del proletariato, Maurizio Landini, appariva sul palco con la stessa intensità drammatica di un attore del cinema muto, con la giacca blu da battaglia e la coccarda come ferita d’onore. Avesse potuto, si sarebbe fatto portare in carrozza sopra un carro agricolo rosso fuoco, issato da braccianti in tuta. Ma a reggerlo oggi c’è solo l’eco di un sogno infranto e un trentennio di assemblee studentesche.
Il grande disegno? Semplice come un monoblocco Fiat: scendere nell’agone, papparsi la sinistra in una forchettata e incoronarsi duce sindacale della nuova sinistra nazionale, nel silenzio generale dei compagni, già con l’occhio puntato ai seggi. Ma il popolo — quello vero, non quello dei docenti universitari in pensione con la spilletta rossa sul bavero — ha risposto con una pernacchia da antologia, stile Alberto Sordi al Quirinale.

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Così, il gran finale si consuma tra piroette semantiche e dichiarazioni d’onore: “Dimettermi? Non ci penso nemmeno” dice Landini, come il sergente che resta a bordo mentre la nave affonda… ma solo per dare un’ultima occhiata al buffet. «Non è stata una sconfitta», insiste. Certo: e Titanic fu solo un “incidente di crociera”.
Il paradosso diventa totale: mentre lui nega il tracollo e rivendica “un nuovo inizio” (qualcosa che ormai nemmeno i testimonial del fitness tentano più di dire con serietà), nel palazzo CGIL si mormora che presto i suoi colleghi potrebbero servirgli un piatto freddo di regolamento di conti. Si vocifera di una “notte dei lunghi badge”, dove a colpi di statuto si deciderà se l’ex saldatore possa ancora tenere in mano la fiamma ossidrica del consenso.
Ma lui, con la faccia di tolla degna del miglior gangster da cinepanettone, dichiara di voler andare avanti. Soffia sulla canna fumante della sua Colt retorica che, ahilui, ha fatto solo cilecca. Un film noir di quarta categoria, dove il protagonista è l’unico a non accorgersi che il pubblico è già uscito dalla sala.
Il centrodestra, intanto, esulta a più non posso, con Salvini che balla la tarantella sulle urne vuote e Meloni che brinda con l’intero staff di palazzo Chigi, a base di prosecco nazionale e meme su TikTok.
E mentre la sinistra cerca rifugio nel lessico dell’ambiguità (non è una sconfitta, è “una base per riflettere”), i veri sconfitti rimangono lì: nel Quarto Stato, ma ormai aggiornato all’era postmoderna. Con le occhiaie da rider, il badge da call center, e le braccia non più levate al cielo ma incollate al touchscreen di un’app di food delivery.

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Pelizza da Volpedo, se fosse vivo, avrebbe dipinto un quadro completamente nuovo: “La Marcia dei disillusi”, con Landini in prima fila, tenuto per mano da Elly Schlein e un QR code gigante al posto della bandiera.