Livorno. Benedetti Cinquestelle, nonostante tutto
Benedetti Cinquestelle, nonostante tutto Grandezza e declino di una città
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Benedetti Cinquestelle, nonostante tutto |
L’unificazione è stata in buona sostanza una piemontesizzazione che ha radicalmente modificato gli equilibri sociali, politici ed economici della penisola. Duole dirlo ma per quanto il sud abbia partecipato, in modo conflittuale ma comunque attivo, al risorgimento del Paese, non solo non ha beneficiato del suo coronamento ma ne ha ricevuto come contropartita la marginalità, la subordinazione e l’occupazione militare. La questione meridionale è figlia diretta dell’unità: dopo essere stata a lungo sottaciuta, questa è ormai storia nota e ampiamente documentata. Meno nota è la sorte toccata alla più vivace città del centro nord, che, svincolata dalla sonnacchiosa Toscana, si apriva verso il commercio mondiale in una sorta di partenariato con i grandi porti del nordeuropea.
Il maggiore emporio del mediterraneo, città cosmopolita con presenza stabile di comunità francesi, inglesi, olandesi, armene, mediorientali, oltre che di ebrei sefarditi, Livorno all’atto dell’unità contava 100.000 abitanti, quando, per intenderci, Padova non arrivava a 40.000 e Milano superava a stento i 200.000. Livorno – Leghorn per gli inglesi, Liorna per spagnoli e portoghesi, Livourne per i francesi – era anche un vivace centro culturale – non a caso è qui che venne stampata l’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert -, oltre che la prima e principale stazione balneare e turistica d’Italia. Bene, con l’unità e lo spostamento al nord del baricentro del Paese, Livorno finì per diventare una città di provincia con una forte caratterizzazione operaia, un’importante produzione ittica ma un traffico marittimo fortemente ridimensionato. Poi col fascismo diviene un feudo del più potente gerarca del regime che ne favorì la ripresa facendone uno dei maggiori centri industriali del Paese, circostanza che gli costò la distruzione totale del centro e dell’area portuale con i bombardamenti a tappeto del 1943-44. Col dopoguerra la città, che era stata fascistissima, si scoprì partigiana e stalinista e stracciata la camicia nera si mise al collo il fazzoletto rosso. Il flagello rosso Il motivo di questo excursusnon ha niente di campanilistico. Mi serve solo per ricordare a chi ha qualche cognizione dello stato in cui oggi si trova la città labronica cosa ha potuto significare un sessantennio di dominio incontrastato dei comunisti e della sinistra. Tutto quello che poteva essere mangiato è stato divorato, il porto si è ridotto a centro di potere locale, le grandi industrie sono state smantellate o se ne sono andate, dov’era uno dei maggiori cantieri navali italiani, e, quindi, mondiali, per una miserabile speculazione edilizia hanno fatto un orribile quartiere residenziale, la grande distribuzione è tutta in mano alle coop rosse, la città si è involgarita, il centro è praticamente scomparso, interi quartieri sono nelle mani di extracomunitari, non ci sono più teatri né cinematografi ma in compenso si moltiplicano le pizzerie e i kebab, i tentativi di farne una sede universitaria sono tutti abortiti, le iniziative culturali sono a un livello strapaesano. Il lavoro latita ma prosperano traffici misteriosi, circola denaro di dubbia provenienza, è impossibile distinguere fra poveri veri e falsi poveri, nullatenenti e sconosciuti al fisco abitano in villette da un milione di euro con BMV e Mercedes in garage, il lungomare è rigorosamente privatizzato, le colline straziate. Cinquestelle: la grande illusione Poi, improvvisamente, un sussulto: dopo tanti anni di supina acquiescenza la gente sembra essersi svegliata; i compagni una mattina, come nella loro canzonetta, hanno trovato l’invasore: sloggiati dal palazzo civico occupato dai nuovi inquilini a cinque stelle. Non intendo dilungarmi. Sono passati quattro anni, fra qualche mese si andrà di nuovo a votare. Cosa è cambiato in questi anni? Nulla. Il fiore all’occhiello della giunta è solo un provvedimento negativo: la rinuncia alla costruzione del nuovo ospedale, fortissimamente voluto dai compagni. Era una delle promesse elettorali, ed è stata mantenuta. L’altra era il via libera all’Esselunga per rompere il monopolio delle cooperative rosse e del cartello che ad esse fa capo. Non se n’è fatto niente: adesso, a ridosso delle elezioni, si ricomincia a parlarne. Per il resto l’amministrazione grillina ha rischiato di far rimpiangere i compagni: ne hanno proseguito la politica del traffico, tesa a scoraggiare quello privato per favorire inutilmente quello pubblico, hanno disseminato dappertutto stalli blu, si sono impantanati con la raccolta differenziata dei rifiuti, non sono stati capaci, in quattro anni, di aprire l’unico parco pubblico decente della città, ancora in attesa di essere bonificato dalla presenza di qualche frammento di amianto sotterrato. In compenso bar, edicole, fruttivendoli e panetterie, tutti presidiati dal giovane di colore, porte aperte ai migranti, se nessuno li vuole qui sono sempre bene accetti, tanto più che qualche amico qualcosa ci guadagna. Una città addormentata, ottusa, conformista, sul solco dell’antifascismo, dei valori della resistenza e bla bla bla. E allora mi chiedo: perché li abbiamo votati? Non voglio girarci attorno: se il movimento Cinquestelle dovesse essere identificato con i giovanotti e le ragazze eletti nei consigli comunali, in regione, in parlamento o in Europa, avrebbe ragione Feltri. Si dovrebbe convenire con lui che sono una sciagura, il colpo di grazia per il Paese dopo il malgoverno della sinistra. Ogni volta che compaiono in televisione mi allontano per non ascoltare le banalità e le sciocchezze che escono dalla loro bocca. Sorvolo sul presidente della camera. C’è chi vince al superenalotto e gli cambia la vita; a lui è andata anche meglio e dovrebbe mostrare gratitudine parlando meno e magari radendosi. Le regole che si sono dati ci hanno liberato, per ora, da Di Battista, che rimane però una minaccia incombente. Fossero stati più accorti Grillo e Casaleggio avrebbero dovuto guardarsi d’intorno e coinvolgere il fior fiore della società civile o, in alternativa, dar vita a strutture capaci di filtrare e formare i quadri politici. Purtroppo la politica è percepita come un ascensore sociale e una scorciatoia per assicurarsi senza titoli o competenze un lauto stipendio e, sentito il vento, tanti si sono lanciati all’arrembaggio. Perché il movimento ha una struttura paradossale, verticistica per un verso e spontanea per l’altro. Senza Grillo, e Casaleggio senior dietro le quinte, non sarebbe mai nato: nella rete e nelle piazze si trovavano dei seguaci incantati dal pifferaio magico, persone che non avevano autonomamente maturato una coscienza rivoluzionaria ma erano al più passivamente disponibili a dare sfogo alle proprie personali frustrazioni. Il movimento scende dall’alto e si diffonde verso il basso, nella rete e nelle piazze. Poi però si lascia alla rete e a gruppi casualmente costituiti il compito di scegliere i rappresentanti e finisce che piccole consorterie formatesi a livello di quartiere, di condominio, fra amici e parenti, con qualche decina o centinaia di voti diventano i collettori dei milioni di italiani ansiosi di liberarsi dal giogo del regime, dalla sinistra e dalla partitocrazia. E così, per una falla nel nostro sistema democratico, centinaia di perfetti sconosciuti che poi si sono rivelati senz’arte né parte hanno beneficiato della speranza di cambiamento incarnata da Grillo. E quando, in una roccaforte rossa come Livorno, il Pd ha mancato la maggioranza al primo turno, chi si era astenuto o aveva, turandosi il naso, votato per la finta destra berlusconiana, ha colto al volo l’occasione per sbarazzarsi del potere plumbeo e ottuso della sinistra unendo il proprio voto a quello dei tanti ma comunque insufficienti che col voto a Grillo intendevano dare una spallata al sistema. Ma Grillo non si è neppure candidato, non si vuole sporcare le mani e forse si illude che il suo carisma personale sia sufficiente per esercitare una funzione di orientamento e di controllo: non sa che il parricidio in politica è la norma soprattutto se il padre non tiene i cordoni della borsa, com’è il caso del Cavaliere. Mentirei se dicessi che nutro per i comico genovese una spiccata simpatia e certe sue sparate sul lavoro e la società futura mi lasciano perplesso. Di una cosa però sono convinto: Grillo intellettualmente, culturalmente, politicamente, eticamente non ha niente a che fare con la sinistra, comunque declinata, mentre troppi, in parlamento e nei consigli comunali sembrano freschi di centri sociali, di circoli Arci e di sezioni piddine. Quindi addosso ai Cinquestelle? Eppure, in barba alle contraddizioni, all’incompetenza, ai pregiudizi, alla rigidità di cui quotidianamente danno prova se soffia il vento del cambiamento il merito non è della Lega ma dei Cinquestelle. E se Salvini gode oggi della fiducia di buona parte del Paese si deve, oltre che al suo personale prestigio, alla circostanza che presso l’opinione pubblica è lui ad incarnare ideali, valori e obbiettivi comuni all’elettorato leghista e a quello pentastellato. Arrivo a dire che se ne fosse lui il leader il movimento avrebbe acquistato un consenso plebiscitario. La Lega è cresciuta perché contaminata dal populismo grillino, perché diventata anch’essa movimento, perché ha sbattuto la porta in faccia non tanto a Berlusconi quanto al berlusconismo, perché si è scrollata di dosso il tanfo che promanava dalle cene eleganti, dagli accordi sottobanco, dagli intrighi di corte, da quello che Lutero chiamava lo sterco del diavolo con cui il Signore si garantiva la fedeltà. Ed è per questo che, nonostante sia spettatore e, come livornese, vittima della mancanza di un ceto politico decente, dico: lunga vita al movimento! E ringraziamoli anche quando sbagliano Goffe e improvvida le uscite di Di Maio sulla Francia e i gilet gialli. Ma finalmente si è alzato il velo dell’ipocrisia: il peggiore nemico dell’Italia è la Francia, e lo è da sempre, non ora con Macron. E, anche per questo, grazie, Cinquestelle! Pier Franco Lisorini docente di filosofia in pensione |