L’Italia invischiata nella rete di Bruxelles

L’Italia invischiata nella rete di Bruxelles
La corsa dissennata allo scostamento di bilancio

L’Italia invischiata nella rete di Bruxelles
La corsa dissennata allo scostamento di bilancio

 Brutto inizio quello del 2018 per le cancellerie europee e l’euroburocrazia. Le residue speranze di un nuovo referendum nel Regno unito dissolte insieme all’idea folle di una sua frantumazione e davanti l’incubo delle elezioni italiane. I sondaggi non lasciavano presagire nulla di buono: a destra Forza Italia cedeva il passo alla ruspante Lega di Matteo Salvini mentre la sinistra non pareva in grado di arrestare la valanga antisistema scatenata dal movimento pentastellato.


E Lega e Cinquestelle avevano concentrato la loro campagna elettorale contro l’Europa sbandierando apertamente il pieno ritorno alla sovranità politica e monetaria. Non so quanta reale determinazione ci fosse dietro queste posizioni. Sicuramente ce n’era poca nella Lega, al cui interno l’uscita dell’Italia dall’Unione era poco più che un’ipotesi di scuola respinta o considerata con scetticismo all’interno del partito e fra i potenziali elettori; superficiale e sbracata la polemica grillina contro Bruxelles e Francoforte guidata da uomini buoni per tutte le stagioni. Ma a Bruxelles e a Francoforte, come a Berlino, non si potevano correre rischi e si era consapevoli che, bene che andasse, l’affermazione di una coalizione euroscettica avrebbe comportato una intollerabile forza contrattuale dell’Italia, a tutto danno della Germania, della Francia e di un nord Europa sensibile al richiamo della Brexit. Insomma l’edificio europeo, già scosso dalla perdita di un pilastro fondamentale, avrebbe potuto crollare rovinosamente se l’Italia avesse non dico rotto ma anche semplicemente allentato il suo legame con l’Unione per magari stringere rapporti privilegiati con la Russia e spostare il suo asse politico verso il mediterraneo. 


Uno scenario intollerabile per gli ospiti privilegiati dell’edificio europeo, che giustifica ampiamente i febbrili contatti con quelli che si suole chiamare “poteri forti”, col Quirinale, con la segreteria dem e soprattutto con quanti potessero a tempo debito prendere il timone del partito fondato da Grillo. È da allora che la stampa europea, anticipando quella italiana, cominciò a qualificare la Lega come l’ “ultradestra” italiana, ponendola al livello dei gruppuscoli come Forza Nuova o Casa Pound; la Lega che in Italia e fuori d’Italia non era mai stata catalogata come una formazione conservatrice o nazionalista. Bisognava emarginare la Lega e contemporaneamente addomesticare i Cinquestelle, che si sarebbero presto rivelati una tigre di carta.

E allora il gran daffare per strozzare nella culla il governo gialloverde dopo averne ritardato la nascita, l’estromissione di Savona, la funzione di guastatore attribuita allo sprovveduto presidente della camera, i dossier e le campagne di stampa contro la Lega, l’impiego cinico delle Ong per avvelenare i rapporti all’interno della coalizione e, s’intende, il ruolo assegnato al cicisbeo al quale toccò il gesto formale di estromettere Salvini aprendo la strada al commissariamento europeo del nostro Paese. Che per ironia del destino, per liberarsene ha dovuto affidarsi proprio ad un euroburocrate tutt’altro che pentito.


Poi la pandemia, che è indubbiamente un disastro ma come spesso accade con gli eventi disastrosi, pensiamo alle guerre, ha anche in sé la formula per uscirne ed uscirne più forti, che è precisamente quello che è accaduto nel Regno unito, che da una posizione di debolezza nei confronti dell’Unione che dopo il referendum l’aveva ricattato in tutti i modi, può ora guardare all’Europa con sufficienza e assistere con sorniona soddisfazione al suo agitarsi nel gorgo dell’ inefficienza, delle pastoie burocratiche e delle sue contraddizioni interne. Ma in Italia al disastro dell’epidemia si è aggiunto il modo disastroso col quale è stata affrontata: impossibile immaginare di far peggio del secondo governo Conte. Il governo giallorosso è riuscito a far sprofondare l’Italia in una spaventosa crisi economica e ad esasperare gli effetti della pandemia lasciando in eredità a Draghi un Paese in ginocchio in mano a una banda di autodefinitisi scienziati.


E Draghi, che è tutto fuorché un leader politico, può sicuramente rapportarsi con l’Europa forte del suo prestigio personale ma non gli si può chiedere di farlo contrapponendoglisi, può sicuramente correggere alcune storture determinate dall’incompetenza o, diciamolo, dalla cialtroneria del governo precedente ma sarebbe irrealistico aspettarsi da lui una decisa inversione di rotta e i fatti lo stanno dimostrando. In più si trova a governare con i complici del passato governo e a dover fare i conti col partito anti italiano, quel Pd che con Letta è diventato più tossico di quanto non fosse con Zingaretti. Il risultato è che dopo 15 mesi si persiste con la strategia, rivelatasi fallimentare, delle chiusure e, peggio ancora, si cerca di cloroformizzare la protesta sperperando denaro pubblico, cioè facendo debito con l’aggravante che il creditore, l’Europa, ha tutto l’interesse a renderci insolventi. Il combinato disposto chiusure-ristori segna la rovina del nostro Paese e sgomenta che non ci sia una reazione, un sussulto di orgoglio o quantomeno un moto di autoconservazione.

I ristori, o sostegni o come li si vuol chiamare, sono un rimedio peggiore del male. In un Paese moderno l’assistenza doverosa nei confronti dei meno fortunati non deve trasformarsi in assistenzialismo, in una pratica di gestione del potere, in una fabbrica del consenso che schiaccia i poveri e gli emarginati nella loro condizione di dipendenza e di subalternità. Se poi sono intere categorie che vengono sottratte al ciclo produttivo e ridotte alla questua al pari dei parassiti scaricati sulle nostre coste dal gigantesco affare dell’immigrazione clandestina e come i tanti, troppi, giovani che per poche centinaia di euro di differenza ritengono più conveniente il reddito di cittadinanza rispetto a un lavoro magari lontano da casa, allora veramente il Paese scivola verso un abisso morale oltre che economico e finisce risucchiato nelle spire di un’Europa ostile. Il vero, autentico, ristoro è quello di accelerare le riaperture e ridurre le chiusure alle situazioni conclamate di pericolosità. Il problema è la commistione di interessi politici, incompetenza di pseudo scienziati ubriacati dall’improvvisa notorietà, inattendibilità dei dati forniti dalle fonti ufficiali, che impedisce di sapere quali sono quelle situazioni: quel che è certo è che tenere chiusa un’oreficeria e consentire le lunghe file agli uffici postali non è solo incomprensibile ma criminale, come obbligare le regioni a tenere aperte le scuole dell’infanzia, che sono focolai di infezione peggiori delle scuole secondarie.


Nessun Paese ha bloccato così a lungo come il nostro le attività produttive né ha così a lungo prolungato lo stillicidio dei ristori: quello che era emergenza da noi è diventata normalità. E quando si dice che negli Stati uniti come in Gran Bretagna le imprese sono state messe in grado di reggere l’urto delle prime inevitabili chiusure, si deve anche aggiungere che è stato fatto per consentire loro una ripresa quanto più rapida possibile non per prolungarne l’agonia.

    Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione   

   Il nuovo libro di Pier Franco Lisorini  FRA SCEPSI E MATHESIS


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