L’invidia sociale

L’invidia sociale
In questi giorni vi è stato un piccolo caso mondano a Savona, un matrimonio con un certo sfoggio di eleganze.

 

L’invidia sociale

 In questi giorni vi è stato un piccolo caso mondano a Savona, un matrimonio con un certo sfoggio di eleganze, di cui ho appreso per caso.

Di solito non mi interesso di eventi del genere, capisco poco chi non si perde un particolare delle conclamate nozze Fedez-Ferragni, o delle più tradizionali cerimonie da rotocalco di reali inglesi, fino ai minimi dettagli anche personali.

Non è la mia tazza di tè, come si direbbe restando alle latitudini di Albione. Posso intuire il desiderio di sogno e immedesimazione di molti, ma sentendomene al contempo molto distante e un po’ rattristata.  

 


 

È che di quest’evento savonese si è parlato sui social, e qualcuno, alla benché minima osservazione, ha tirato in ballo l’invidia sociale. Sono persone che danno per scontato che tutti aspirino a uno stile di vita frivolo e vuoto, stracolmo di mondanità e beni materiali, almeno quanto vi aspirano loro. Probabilmente, invano. 

Stavo per replicare con una risposta molto articolata a quel commento, poi mi sono resa conto che, date le probabili convinzioni dello scrivente, avrei solo innescato una polemica sterile come tante, e proficuamente per il mio tempo e le mie energie, ho lasciato perdere.

Mi era rimasto però, per così dire, un colpo in canna.  Neanche a farlo apposta, ritrovo un articolo fresco di stampa che riprende pari pari le mie riflessioni. E allora, forte di prove concrete, vado a esternare. 

  http://espresso.repubblica.it/affari/2018/09/06/news/se-nasci-povero-resti-povero-nessun-paese-peggio-italia-immobilita-sociale-1.326524?ref=fbpe

 Ora, ripartiamo dal concetto di invidia sociale. Discutibile di per sé, perché figlio di una degenerazione dell’etica protestante, giù giù da Weber fino a Berlusconi. 

Lastricato e asfaltato sotto strati di rifiuti tossici qualsiasi concetto di equità, umanità, solidarietà, passato di moda il socialismo col crollo di quel muro, dimenticata qualsiasi minima idea di pudore della ricchezza,  allargate le crune degli aghi fino a farci passare una fuoriserie (superlusso edizione limitata),  superato in questa retromarcia frenetica persino il concetto ottocentesco di mecenatismo o beneficenza per compensare in qualche modo le grandi fortune, ora siamo all’ opposto: sono i poveri, in realtà, a doversi vergognare, a doversi sentire in colpa di essere tali e possibilmente nascondersi e dare poco fastidio. I ricchi devono solo sfoggiare e fregarsene, in un divario che si fa abisso.

La vulgata di questa narrazione è che se i ricchi sono ricchi è perché hanno avuto iniziativa, coraggio, intraprendenza, e soprattutto, la famosa e mai sufficientemente lodata voglia di lavorare. Il credo meneghino a cui tutto si deve inchinare. La benedizione divina del calvinismo. 

I poveri, invece, evidentemente preferiscono l’assistenzialismo, sono inerti, pelandroni, sfaticati e lamentosi. Peggio per loro. 

Salvo poi invidiare con acido rancore chi invece ce l’ha fatta. 

 


 

Ma quanto c’è di fondato in una idea del genere, che io peraltro giudico sufficientemente aberrante?

Prendendola per buona, si potrebbe ribattere che non sempre le ricchezze hanno origini totalmente limpide. Che fortuna e sfortuna, e a volte, pelo sullo stomaco oltre misura, fino all’illegalità, vi giocano un ruolo importante.

Ma andiamo ancora oltre: tralasciamo qualsiasi giudizio morale di stampo cattolico o marxista o calvinista o quel che si voglia, e ammettiamo per assurdo che tutte, ma proprio tutte le ricchezze originino solo da intraprendenza e onesto e duro lavoro e meritino ogni benedizione apostolica. Resterebbe un altro, piccolo particolare: che le carte non sono uguali per tutti. Che il gioco è pesantemente truccato in partenza. 

Il che era esattamente quel che stavo per rispondere al commento sull’invidia sociale.

Stavo per richiamarmi a un vecchio studio sulla Firenze dei Medici paragonata a quella attuale, ma ecco l’articolo recente dell’Espresso, cadere esattamente a fagiolo.

Forse non è tutto merito dei ricchi se sono ricchi, e demerito dei poveri, se sono poveri? Forse intraprendenza, impegno, capacità e altre lodevoli doti giocano un ruolo minimale, per non dire nullo, nella grande giostra, se non si hanno in mano i jolly?

 


 

È esattamente così, e lo testimoniano dati e statistiche. Di questi tempi la situazione sta diventando estremamente frustrante.  Per una banale serie di motivi: in tempi di “vacche grasse”, anche se permangono ingiustizie e privilegi, qualche spazietto per chi vuol vivere tranquillo o migliorare la propria posizione economica e sociale, si crea. Ma in tempi di ristrettezze, la raccomandazione, l’appartenenza, lo sgomitare lecchino e tutti gli altri piacevoli meccanismi diventano condizione necessaria e non sufficiente per sperare di cavarsela. E sono molto più evidenti e rigidi. 

Ora, non mi sorprende sentir dire che la scala sociale in Italia è ferma e immobile più che in qualsiasi altro paese. Già quello studio sulla Firenze cinquecentesca dimostrava che ricchezza e potere, in mezzo millennio, sono rimasti nelle mani delle stesse famiglie. Ma è qualcosa che ciascuno di noi intuisce, “sente”, solo guardandosi intorno. Ed è la ragione alla base del nostro declino, la causa che si fa effetto.

La nostra città non fa eccezione, ce ne accorgiamo fin da piccoli. Non è comunque diversa, a sentire narrazioni di altri luoghi, da qualunque cittadina chiusa e asfittica di provincia. 

Avendo frequentato il liceo classico, un tempo luogo simbolo del privilegio, ricordo benissimo l’aria diversa che circondava alcuni ragazzi.  Una sorta di aura di considerazione, di rispetto, di privilegio. Non che vi fossero ingiustizie nei voti e nelle valutazioni, eh, questo proprio no, non potrei dirlo. Però si percepiva come questi figli di professionisti avessero già un comodo destino a disposizione, perpetuare la posizione familiare, indipendentemente da voti e tempo impiegato per completare gli studi. Di generazione in generazione, come già narrava mio padre prima di me. 

Loro erano fuori dalla palude comunque. Gli altri, a mollo fino a prova contraria.

 


 

E quanto era difficile, questa prova contraria… E lo è rimasta, ed è peggiorata nel tempo. Sempre di più, in parallelo col rovinare della situazione economica.

Nemo propheta in patria, si dice. Personalmente, a dispetto dei miei studi col massimo dei voti, e delle mie belle illusioni, mi sono sentita sempre un’esclusa. Mai fatto parte di alcun clan, mai ottenuto molti riconoscimenti od occasioni, sia nella vita professionale sia in quella letteraria o giornalistica o redazionale. Quei pochi, ben sudati. I miei antenati zappavano la terra per conto dei possidenti savonesi. Loro son sempre possidenti più che mai.  Io non è che abbia fatto molta strada. Non mi lamento né vorrei essere al posto di altri, e son felice di zappare la terra, libera e a testa alta, e di mantenere nell’anima le mie radici. Solo, so di non aver ottenuto per quanto ho speso. Neanche un po’.

Ma non voglio farne un caso personale. Diciamo solo che molti si sono sempre sentiti come me. Molti, che non si erano mai avvicinati a una politica respingente, snob, chiusa nelle conventicole e fatta di coltellate per emergere, hanno ritrovato passione col M5*, la patria degli esclusi, dei caninchiesa. Si sono ritrovati e riconosciuti.

 


 

E tali hanno continuato a farci sentire fino a oggi, che siamo prima forza politica del Paese, circondati da derisione e insulti e sputi in faccia.  Bontà loro. Sarà dura scardinare questa rete di resistenza. Non la resistenza folcloristica contro le sparate salviniane, energia sprecata contro un falso bersaglio, ma la resistenza di un sistema rigido, chiuso, spietato, ramificato, localmente e su scala nazionale. Il fort Alamo dei partiti maggiori. 

Quella sarà la sfida più grande, in un Paese che non a caso non ha mai visto una rivoluzione. E non è detto che si possa vincere, perché la sindrome di Masaniello è sempre in agguato, il potere ti blandisce, per inglobarti o distruggerti, ma comunque renderti innocuo. Già si son dovuti accettare molti, troppi compromessi. Forse fatali. 

Ogni volta, però, che una qualche legge riceve alti strilli e grottesche accuse dai partiti maggiori, sento che la strada è quella buona. Per esempio la legge anticorruzione, per la quale ho sentito uno del PD delirare nello stesso discorso di strapotere della magistratura e di deriva berlusconiana, come se le due cose fossero compatibili. Siamo davvero alla frutta. Penosi e pietosi e indegni del loro elettorato, fatto di tante brave persone, oltre alle clientele.

E allora spero ancora che questa frustrazione che mi rimescola dentro prima o poi riesca a placarsi. 

Invidia sociale? No, piuttosto senso di ingiustizia. 

Ingiustizia quando vedo uffici o ruoli in cui persone chiaramente inadeguate e svogliate ti trattano con sufficienza e le cose non funzionano.  Ingiustizia quando diversi giovani brillanti che si erano avvicinati al nostro MoVimento, che stavano iniziando a dare contributi fattivi, portando idee ed energia, se ne sono andati da Savona, città morta alle speranze. Ed è fenomeno endemico. 

http://mobile.ilsole24ore.com/solemobile/main/art/notizie/2017-07-06/oltre-250000-italiani-emigrano-all-estero-erano-300000-dopoguerra-094053.shtml?uuid=AEuX6nsB&refresh_ce=1

Ingiustizia quando tanti altri giovai hanno accettato con poco entusiasmo studi brevi o lauree ancillari, nella speranza del “posto”, già scoraggiati in partenza circa qualsiasi ambizione e voglia di miglioramento o peggio, di cultura. Io ero illusa un tempo, preda di rosei sogni. Loro sono già disillusi come marchio di fabbrica.

 


 

Già, i famosi “neet”, bollati come sfaticati senza chiedersi cosa si offra loro.  Tutto, tranne la speranza.

Ingiustizia quando vedo politicanti di mezza tacca, che spesso hanno fatto danni nelle loro posizioni, bocciati sonoramente da questi fastidiosi elettori, ma riciclati sempre e comunque, sempre con un paracadute a disposizione, un posto comodo, un ruolo di prestigio, un lauto stipendio. Sempre con la stessa tranquilla sicumera. Mai nessuno, non dico che paghi, che sarebbe sperare troppo, ma almeno che sia costretto a ricominciare e cavarsela con le sue sole forze. 

Ecco, mi piacerebbe vedere la fine, o almeno il ridimensionamento di tutto questo. Mi piacerebbe vedere finalmente il merito, l’iniziativa, la creatività premiati. Perfetti sconosciuti emergere portando idee nuove, preparazione ed entusiasmo, quello spirito che in epoche più brillanti ci ha reso faro nel mondo.

Invidia sociale, frustrazione da Savonarola “manettari”?

No. La semplice, banale considerazione che questo meccanismo incartapecorito e consolidato fa precipitare un Paese nella povertà morale e materiale, preclude qualsiasi possibilità di sviluppo, ci porta inesorabilmente al declino, produce una società sterile, squallida e ignorante quale ormai siamo.

Con intellettuali snob e schizzinosi, anche loro incartapecoriti nella torre d’avorio del privilegio, che si rifugiano in un comodo disprezzo. 

Questo, mi piacerebbe che cambiasse, una buona volta. Per questo, e per le generazioni che verranno, sento ancora, nonostante tutto, la voglia di lottare. Di mulini a vento ce n’è da vendere.

 

  Milena Debenedetti  Consigliera del Movimento 5 stelle

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