L’imbroglio della didattica a distanza

L’imbroglio della didattica a distanza
Un altro colpo alla credibilità della scuola

L’imbroglio della didattica a distanza
Un altro colpo alla credibilità della scuola

 È stupefacente la facilità con cui gli stessi che per decenni ci hanno tormentato prima con la centralità del gruppo classe, poi con lo star bene in classe, poi col primato della socializzazione sull’istruzione, sulla condanna della lezione frontale, anzi della lezione tout court, sulla funzione dei “contenuti”, sviliti – o elevati – a strumento occasionale della formazione, la facilità, dico, con la quale ora sono diventati paladini dell’educazione a distanza. Un abominio educativo, lo dico subito, un surrogato che sta al dialogo educativo e alla trasmissione del sapere come la cicoria sta al caffè, purtroppo necessario in casi eccezionali, quando le scuole e gli insegnanti non ci sono o nei casi di bambini ospedalizzati o isolati in località sperdute. Ora invece sembra che il tablet e la videolezione siano la nuova frontiera della pedagogia, quella sulla quale investire tutte le risorse per far ripartire la scuola, realizzando così la vecchia sciocchezza berlusconiana delle tre i, informatica, inglese, imprenditorialità.  E con essa il sogno dei sindacati e di tutta la fungaia che cresce intorno al tronco fradicio della scuola, che si fregano le mani all’idea dei corsi di formazione e di aggiornamento, col contorno di tutorial, pacchetti di programmi e tutte le menate che l’innovazione si porta dietro.

 

 

Ma, al di là della retorica sull’importanza della socializzazione, sullo star bene in classe, sulla centralità del gruppo-classe, sono molti e seri i motivi per convincerci che la didattica a distanza è solo un cattivo surrogato dell’insegnamento. In primo luogo per la perdita di tutti gli elementi non verbali o paraverbali del linguaggio e la riduzione della transazione educativa a un flusso di dati unidirezionale, con un feedback che è semplicemente avviso di avvenuta recezione;  la didattica è ridotta a messaggio, ma un messaggio drenato di significato, scarnificato, inaridito, perché, come è stato detto, il mezzo è il messaggio e qui il mezzo è estraniante, trasmette ma non comunica. La comunicazione è qualcosa di avvolgente, è una corrente nella quale si mescolano elementi fisici e spirituali, empatia, contesto, prosodia, punteggiatura, tonalità, gestualità, contatto visivo. Una frase dal contenuto banale può assumere una formidabile forza suggestiva così come la più potente o provocatoria tesi di un grande filosofo può diventare del tutto insipida e non lasciare traccia.  E, paradossalmente, rispetto ad una comunicazione via radio l’immagine non migliora affatto la possibilità di partecipazione e di coinvolgimento: se la voce da sola può avere una potente carica suggestiva grazie anche alla eliminazione dei distrattori, l’immagine, che è cosa ben diversa dalla presenza fisica, è di per sé proprio un fattore di distrazione e di allontanamento, non di avvicinamento. L’immagine, semmai, deve essere suscitata dal suono e nascere dal di dentro, non deve essere imposta dall’esterno.

Si cerca di far passare l’idea che la didattica può essere indifferentemente “in presenza” o “a distanza” ma l’espressione stessa “didattica a distanza” è un ossimoro, una contraddizione. La didattica è nella sua essenza rapporto, relazione, scambio.


La carica affettiva è il collante della memoria ed è soprattutto potente nell’età evolutiva. Un altrettanto potente fattore di fissazione delle informazioni è la curiosità con il relativo bisogno di trovare una risposta. Nella didattica a distanza si perdono l’una e l’altra, dal momento che il bambino o l’adolescente – ma vale anche per l’adulto – sono soli davanti al tablet in un contesto indifferente se non ostile, che, nella migliore delle ipotesi, fornisce condizioni per una fruibilità passiva e tutta esteriore e più spesso costituisce una sofferta forzatura all’interno di situazioni abitative e sociali che si reggono su delicati equilibri spaziali e relazionali.

Non va dimenticato che la funzione di controllo e l’efficacia dei rinforzi, come il tanto vituperato voto, non si esercitano in assoluto, astrattamente, ma hanno senso in relazione all’altro.  Un po’ come succede con tutte le caratteristiche personali che danno qualche forma di potere: il denaro, la forza, la bellezza o l’intelligenza. In un’ipotetica situazione di isolamento esse perdono di significato; lo acquistano quando possono essere esibite, perché valgono proprio in quanto mostrate  e in quanto determinano una reazione. Il voto è un rinforzo efficace perché chi lo riceve sente su di sé l’invidia e l’ammirazione dei compagni e diventa così uno stimolo a far meglio. È la meritocrazia, quella cosa che le vestali del politicamente corretto hanno, bontà loro, riscoperto dopo averla a lungo osteggiata e dileggiata, senza la quale bisogna fare assegnamento su motivazioni endogene  che abbondano solo nell’isola di utopia. La società non è fatta di individui eccezionali che si autoalimentano come tanti Giacomo Leopardi; per mantenersi ha bisogno di persone normali, che crescono e danno il meglio di sé grazie a stimoli e motivazioni esterne, grazie all’emulazione, interessi indotti, forzature e costrizioni  e,  non ultima, la suggestione del maestro.


Fin qui considerazioni sul merito, che non tengono conto  di variabili delle quali non si può disconoscere l’importanza anche se estranee alla funzione primaria della scuola. La società contemporanea si è organizzata sulla base di certe condizioni: la dimensione ristretta delle famiglie, ridotte al nucleo genitori-figli o addirittura monogenitoriali, l’eliminazione della differenza di genere rispetto al ruolo sociale: di norma le donne lavorano come lavorano gli uomini e anche quando per necessità o per scelta non lavorano pretendono a buon diritto i loro spazi personali. La scuola, insomma ha oggettivamente, seppure di riflesso, anche la funzione sociale di custodia per i figli; è antipatico dirlo ma è un dato di fatto. E pochi hanno a disposizione nonni o personale prezzolato  per adempiere a questa funzione. 

E, infine, l’accentuazione del divario socioculturale determinato dalla didattica a distanza. A parte la varietà delle condizioni abitative alle quali ho già accennato, le pari opportunità che la classe garantisce cedono il passo allo status della famiglia. il benestante torna nel suo benessere, il disagiato nel suo disagio o degrado. La più importante conquista sociale del ventesimo secolo viene di colpo vanificata. Che si possa rimediare regalando tablet è follia pura.  


Il Ministro Lucia Azzolina

In conclusione: tornare in classe, e tornarci al più presto. In aule pulite, ariose, sanificate, con la garanzia della distanza interpersonale e soprattutto del controllo medico. Che non si verifichi più che bambini febbricitanti, affetti da pediculosi o con sintomi evidenti di scabbia vengano parcheggiati a scuola. E che si ponga fine allo sconcio della mancanza di personale idoneo a garantire le condizioni igieniche negli edifici scolastici. 

Termino con una nota mio malgrado polemica. Ma che ci fa la signora Azzolina al ministero dell’istruzione? D’altronde, si dirà, c’erano già passati una sindacalista senza nemmeno uno straccio di diploma e un grigio burocrate con un passato di insegnante di sostegno. Che tristezza. E non tanto per chi li ha designati ma per chi ne ha formalizzato la nomina senza fiatare.  

Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione    

 

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