L’IDEA DI UN DIVERSO MODELLO DI SVILUPPO

RITORNO ALLA MODERNITA’ : AUTOCRITICA A SINISTRA
L’IDEA DI UN DIVERSO MODELLO DI SVILUPPO

RITORNO ALLA MODERNITA’: AUTOCRITICA A SINISTRA
L’IDEA DI UN DIVERSO MODELLO DI SVILUPPO
 

La tragedia giapponese ha sicuramente scosso molte coscienze in tutto il mondo.

Una obiettiva valutazione dei fatti dovrebbe però consentirci una analisi lucida e spietata intorno agli errori della post-modernità e richiamarci per intero all’idea della necessità, inderogabile, di ritornare all’idea di un diverso modello di sviluppo che abbia alla sua base l’idea del “mondo” come nazione comune, senza cedere alle sirene che ci hanno ammaliato in questo ultimo ventennio

Il Giappone presenta sicuramente una situazione particolare per tanti fattori, da assumere però quale metafora per l’intero globo.

E’ stato concesso troppo, nel corso di questi ultimi decenni segnati da quella che abbiamo definito “globalizzazione”, all’idea del liberismo senza freni e dello sviluppo tecnologico orientato esclusivamente alla crescita dei consumi, senza far nulla perché l’innovazione mutasse (o almeno spostasse) alcune coordinate di fondo nel modo di vivere e di usufruire delle risorse disponibili.

Anche coloro, singoli e associati, che hanno avuto maggiore sensibilità e coerenze rispetto all’individuare il baratro verso il quale ci si stava avviando hanno aperto spazi al procedere dell’avversario: le idee di contrasto al pensiero dominante sono risultate frammentate e episodiche (pensiamo alle vicende della contestazione ai vari vertici dei grandi della terra, a partire da quella del cosiddetto “popolo di Seattle”, o all’assunzione di riferimenti internazionali deboli, ambigui, posti su terreni non in grado di far sortire il frutto di una proposta alternativa).

Soprattutto si è consentito il progressivo svilimento di ruolo delle forze politiche progressiste ed antagoniste, risultate incapaci di darsi un assetto all’altezza delle contraddizioni emergenti, di individuare con lucidità i passaggi che si stavano aprendo, risultando subalterne ad una logica “movimentista” rivelatasi, alla fine, inefficace: questo è accaduto prima di tutto in Europa, là dove avrebbe potuto partire, per storia, capacità di elaborazione, peso culturale l’idea di un rinnovamento delle idee di fondo riguardanti il futuro del pianeta, cercando di realizzare sia l’unità di una Europa “politica”, sia un disegno alternativo a quello del capitalismo finanziario dominante e dei suoi ulteriori sviluppi.

E’ mancata per intero, da parte delle forze della sinistra a livello internazionale una idea di società diversa, di pensiero alternativo: si è proceduto a spezzoni, spesso in antagonismo tra di loro, non riuscendo neppure sul piano teorico a rielaborare le idee che pure, dalla caduta del bipolarismo e della perdita di ruolo di quelli che furono i “non allineati”, erano state portate avanti con una qualche chiarezza.

L’idea della guerra, inoltre, ha continuato a dominare sullo sfondo di uno scenario di macerie umane e morali.

L’assenza di idee che contengano elementi “discriminanti”, di “alterità”, di “diversità” appare essere quindi il limite più vistoso della sinistra, sul piano interno e sul piano internazionale: quello che allontana l’idea dell’alternativa.

Quando si legge del “lavoro” ridotto a “bene comune” davvero cascano le braccia per lo sconforto, e quando si registra l’organizzazione di manifestazioni “settoriali” (l’acqua, la scuola, e quant’altro) davvero pare proprio essersi smarrita l’idea di fondo di una trasformazione radicale dello stato di cose presenti, che dovrebbe essere in campo – invece – nella forma politica più incisiva, proprio perché richiesto dalle drammatiche urgenze, a livello addirittura planetario, cui ci siamo richiamati fin dall’inizio di questo intervento.

Per cominciare ad entrare nel merito di questo stato di cose è però necessario porci alcune domande:siamo riusciti, nel corso di questi anni a tenere assieme, intrecciare all’interno di un progetto scelte economiche e scelte post-materialiste, in “primis” quella ambientale?

 Siamo d’accordo, o no oppure siamo d’accordo soltanto a parole sul fatto che è mutato il rapporto tra struttura e sovrastruttura e che non basta, come sostiene una certa parte della sinistra e del più generico “progressismo” internazionale una forte innovazione tecnologica dei prodotti e dei processi produttivi? Possiamo considerare eccessivamente circoscritta l’idea di uno “sviluppo sostenibile” non collegato – appunto – ad un progetto complessivo di trasformazione sociale?

La tragedia giapponese ci richiama, infine, ad un solo grande interrogativo: se si vuole superare le enormi ferite inferte alla natura, le profonde ingiustizie verso quelle parti del mondo che vivono in condizioni di assoluta minorità rispetto ad altre, le disuguaglianze materiali e sociali, il problema mondiale della disoccupazione e modificare il livello e la qualità dei consumi (che ormai è incompatibile con la salvaguardia della vita di tutti sul pianeta), la sinistra deve porsi il problema di modificare a fondo il meccanismo dello sviluppo.

Permangono, nella sinistra italiana ed europea, culture ed opinioni vecchie e tradizionali rispetto al tema della crescita e dello sviluppo e, soprattutto, è apparsa in ritardo l’analisi sul processo di finanziarizzazione dell’economia che è stato alla base della crisi scoppiata ormai da 10 anni a questa parte e dell’ingresso di nazioni formidabilmente attrezzate sul piano della competizione globale come Cina e India, capaci di assumere proprio il processo di globalizzazione per rovesciarlo a proprio completo favore.

Abbiamo visto come certe ricette formulate al fine di affrontare il grande malanno della disoccupazione si siano rivelate poco efficaci, dalla riduzione dell’orario di lavoro alla costruzione di un complesso di cosiddetti “nuovi lavori” definiti come socialmente utili: questo perché non è stato posto, a livello internazionale, il tema della scarsità ( o almeno della limitatezza) delle risorse come fattore fondamentale proprio di un diverso modello di sviluppo che avrebbe potuto rendere efficaci quelle misure, sia pure in una dimensione congiunturale.

La concezione dello sviluppo, adesso a secondo millennio inoltrato, riassume dunque l’entità di discrimine fondamentale, quasi di un crocevia, sul quale dovrebbe essere più chiare (dopo un lungo periodo di confusione) le differenze tra destra e sinistra, un tema sul quale tentare di costruire un nuovo sistema di alleanze sociali e politiche.

Affrontare le contraddizioni dell’oggi, come la sinistra ha fatto finora, al di fuori da un quadro d’insieme ha dato luogo a forti subalternità e a rincorse pure e semplici del più trito liberismo: le incertezze che ravvediamo nel tornare ad esprimere un “no” chiaro al nucleare non legato semplicemente all’emotività dell’emergenza derivano proprio da questa carenza, da questa negativa episodicità nel pensiero e nell’azione.

Si collocano all’interno di questo discorso anche le questioni relative al ruolo del pubblico e del privato e quella dello stato sociale che, per ragioni di economia del discorso, affrontiamo in questa sede soltanto lateralmente.

Dobbiamo ricominciare da capo? In qualche modo sì.

Forse è questa prospettiva che spaventa la sinistra italiana e quella europea e ne causa limiti di elaborazione e di respiro strategico.

La strada più proficua potrebbe essere quella di assumere pienamente e consapevolmente i temi di una prospettiva futura fondata sull’equilibrio ed il risparmio nell’utilizzo delle risorse e della redistribuzione della ricchezza come nuovi baricentri per una idea di “società sobria” dove l’eguaglianza ritorna ad essere un valore positivo.

Queste cose che le siamo già dette altre volte ma nei fatti i partiti della sinistra hanno scelto altre strade, arrendendosi non solo al meccanismo stritolante del liberismo consumistico ma, anche e soprattutto, alla riduzione dell’agire politico al campo della pura spettacolarizzazione dell’immagine personalistica dei “leader” (o presunti tali).

Il ritorno alla “politica” è forse il primo passo per affrontare le grandi contraddizioni dell’oggi: questa che stiamo praticando non è politica, è semplice competizione per funzioni di potere collocate al di fuori da una idea di progetto, di programma, di confronto tra i ceti sociali alla ricerca di sintesi, mediazione, idea di futuro.

Torniamo, in conclusione all’Europa, che continuiamo a ritenere uno dei punti nevralgici dai quali può partire una idea di cambiamento, rivolgendo un ultimo interrogativo: ai partiti del PSE e del GUE si può parlare di questi temi, in chiave, anche di una futura costruzione di una soggettività politica, a quel livello, adeguata alla qualità dello scontro?

La tragedia giapponese, esempio incalzante di un modello sbagliato di governabilità senza prospettive, è lì drammaticamente a rappresentare un esempio terribile.

Savona, 17 Marzo 2011                            Franco Astengo

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.