Lezioni di democrazia e diritto, quelle che l’Italia dei compagni non si può permettere

Spero che mi venga perdonato l’andamento rapsodico ma un legame fra le cose che scrivo c’è ed è l’indignazione che mi provocano il sistema italiano dell’informazione e chi lo pilota. La risonanza che viene data alle notizie è la misura dell’importanza dei fatti. Così almeno dovrebbe essere. L’arresto in Egitto del giovane attivista politico Patrick Zaki è diventato da noi un caso nazionale per il fatto che frequentava un master all’università di Bologna. Una sede universitaria italiana dal febbraio dello scorso anno è in stato di agitazione mentre in tutta la città si sono mobilitati partiti e istituzioni e sono nati comitati di studenti e di cittadini per sollecitare la sua scarcerazione e il ritorno in Italia. Il ministro degli esteri e il governo tutto seguono il caso con attenta preoccupazione, la diplomazia è allertata, non si contano i servizi televisivi su tutte le reti pubbliche e private, gli editoriali, le prime pagine a titolo cubitali. E quando qualche giorno fa è stato scarcerato in attesa del processo dalle pagine dei quotidiani e dai telegiornali è straripato un giubilo incontenibile che ha perfino oscurato la consueta dose di allarme Covid.
L’Egitto è un importante partner commerciale dell’Italia, è la culla di una delle principali civiltà del mediterraneo, la sua storia è legata a doppio filo con la nostra storia ed è fra i Paesi islamizzati quello che tiene più a bada i fanatici della jihad e nonostante la pressione degli imam concede una tolleranza religiosa incompatibile con la legge coranica.

Un Paese che pur tra alti e bassi e non senza contraddizioni si è lasciato alle spalle la primavera araba e l’oltranzismo islamista dei Fratelli Musulmani e si sforza di conciliare religione e democrazia. Certo che si sia tenuti a professare una religione autorizzata – oltre l’islam, religione di Stato nella versione sunnita, la variante sciita, il cristianesimo e l’ebraismo – e sia penalmente sanzionabile l’ateismo urta contro la concezione laica dello Stato propria dell’occidente ma si ricordi che anche per noi questa è una conquista molto più recente di quanto si possa credere. Chiedere a un Paese che sta faticosamente affrancandosi dal confessionalismo il rispetto di libertà e diritti civili che non sono garantiti nemmeno a casa nostra è veramente grottesco e si spiega solo con l’atteggiamento filo francese e anti italiano di tanta gente che, come Monti, abita nei piani alti del regime. Non appena è cominciato ad attutirsi il chiasso su Reggeni – e io, nei panni dei suoi familiari, prima di ogni altra cosa avrei voluto vederci chiaro con gli accademici inglesi che hanno spedito il ragazzo allo sbaraglio – ecco che si apre il caso Zaki per mettere altra benzina nel fuoco delle relazioni diplomatiche col regime di Al Sisi, nel frattempo insignito da Macron della legion d’onore.
Intanto un altro giovane, impegnato anche lui a perfezionare la sua preparazione all’estero, questa volta un italiano alla Columbia University  di New York, viene scannato da una banda di afroamericani mentre fa jogging in un parco. I media italiani confinano la notizia in un cantuccio, sfumano sugli assassini, trattano la morte del ragazzo come una tragica fatalità, due parole di circostanza, un servizio dalla città natale, che continuerà a essere conosciuta per i tartufi e non certo per la fine di Davide Giri e si chiude lì. Nemmeno un fiato sulla sorte dell’altro nostro connazionale finito in ospedale nella stessa circostanza.

Dell’uno e dell’altro nei media nostrani non rimane neppure il nome. C’è voluto Rampini per segnalare la disinvoltura con cui stampa e televisioni si sono adoperate per minimizzare la notizia, che in un Paese serio dove l’informazione è libera e svolge la sua funzione avrebbe fornito lo spunto per riflettere sulla drammatica situazione in cui versano una buona parte degli States, alle prese con una minoranza nera restia ad integrarsi nella società americana.  Ma questo è un argomento tabù per i fautori dell’accoglienza, che altrimenti dovrebbero riconoscere che la presenza di milioni di stranieri e il continuo afflusso di altri clandestini stanno minando dalle fondamenta l’assetto sociale economico e culturale del nostro Paese.  Per loro, per le anime belle, per i compagni innamorati dell’Europa e allergici alla sovranità dell’Italia torna comodo separare le responsabilità di Al Sisi da quelle dell’Islam, perché con l’Islam si deve dialogare nonostante tutto, torna comodo spostare l’attenzione sulla violazione dei diritti civili oltre che in Egitto per esempio in Ungheria  o in  Polonia – sottacendo l’evidenza che i popoli dell’Africa sub sahariana riescono solo a riprodursi ma sono incapaci di dar vita a uno straccio di Stato degno di questo nome e quando sono costretti a riconoscere questa evidenza tirano in ballo il colonialismo e le colpe dei bianchi. E allora anche sull’agguato al nostro ambasciatore in Congo è bene non insistere troppo: qualche giorno di retorica dolciastra tanto per sottolineare quanto era amico degli africani e ci si mette una pietra sopra.

Si continua invece a parlare dello sculaccione alla giornalista che ha giustamente indignato la pubblica opinione e ha ottenuto nell’immediato il giusto risalto.  Ma non c’era bisogno di elevare lo sculaccione al rango di violenza carnale. Una voce stonata rimane però quella di Filippo Facci, che spesso esce dal seminato del buonsenso come quando sostiene che la Verità e il Fatto sono i peggiori giornali italiani (forse perché seppure da prospettive diverse sono le sole voci di opposizione al regime) o quando si spendeva in una indifendibile difesa del fumo di sigaretta nei locali pubblici e ora insinua che la giornalista se la sia voluta per i jeans attillati. Ma la cronaca in generale non ha più spazio nei media italiani: lo spazio dato alla politica pare inversamente proporzionale alla presenza della politica all’interno della società civile. I fatti di cronaca appaiono accuratamente selezionati ed enfatizzati solo se funzionali al politicamente corretto, altrimenti sono minimizzati o ignorati. Una violenza sessuale consumata all’interno di un treno è in sé un evento spaventoso perché mina la fiducia in una delle strutture fondamentali dello Stato moderno: la libertà di movimento, la sicurezza dei mezzi di trasporto pubblici, la tutela garantita dalle forze dell’ordine e dal personale viaggiante. Se accade è peggio di un deragliamento.

Ma stampa e televisioni sono silenti per non dover dire che il colpevole è un clandestino. Semmai si sbilanciano per rimarcare che l’altro, il complice, è un italiano ma ci vogliono le pinze perché tirino fuori che il primo è senegalese. E, per non correre il rischio di dover informare che nella civilissima Italia molte tratte ferroviarie sono diventate terra di nessuno e ormai da decenni sono infestate da africani e rom tanto che non c’è ragazza che abbia l’ardire di viaggiare di notte se non accompagnata, liquidano in ventiquattro ore la vicenda dello stupro. Chissà se gli araldi del politicamente corretto, della parità di genere, della negazione dei generi, quelli che guai scrivere “gli uomini” invece di “le donne e gli uomini”, quelli delle scarpette rosse e della conta dei femminicidi sotto sotto condividono la celebre battuta di un vecchio western: una doccia e via. E ora, arrabbiato e amareggiato come sono, mi viene da concludere con una nota amara: la standing ovation di dodici minuti riservata dal pubblico della scala a Mattarella con richiesta del bis (siamo a teatro). Ma cosa e chi crede di rappresentare questa gente? Viene da rimpiangere i giorni lontani quando le signore impellicciate nel foyer erano il bersaglio di giovani arrabbiati armati di pomodori marci.

Pierfranco Lisorini

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