Lettura di un’immagine: Venere di Urbino

LETTURA DI UN’IMMAGINE 68
Venere di Urbino
Olio su tela (1538) di Tiziano Vecellio
Galleria degli Uffizi – Firenze

LETTURA DI UN’IMMAGINE 68

Venere di Urbino
Olio su tela (1538) di Tiziano Vecellio
Galleria degli Uffizi – Firenze

 Questo dipinto venne commissionato a Tiziano (Pieve di Cadore, 1488/90 – Venezia, 1576) da Guidobaldo II Della Rovere, Duca di Urbino, nel  1538 malgrado il diverso avviso della madre, Eleonora Gonzaga. Nel 1631 Vittoria Della Rovere, ultima erede del casato, sposò Ferdinando II de’ Medici e portò con sé a Firenze molte opere d’arte appartenenti al ducato di Urbino, tra queste anche la Venere del Tiziano che trovò collocazione definitiva agli Uffizi nel 1694. Nelle intenzioni di Guidobaldo, che nel 1534 aveva contratto un matrimonio combinato per motivi politico-patrimoniali con l’undicenne Giulia da Varano, l’opera del pittore famoso avrebbe assunto anche un valore etico-pedagogico oltre a quello estetico: la Venere tizianesca infatti è anche un inno all’amore e alla fedeltà coniugale, come si evince dal prezioso anello nel mignolo della mano sinistra della dea, la stessa mano che nasconde pudicamente il pube (anche se, in teoria, la visione della sua nudità era riservata solo al consorte, come quello sguardo tra il pudico e il seduttivo). Simboli di fedeltà sono anche la perla a forma di goccia che le pende dal lobo sinistro, il monile d’oro con pietre preziose al braccio destro e, naturalmente, il cagnolino accucciato ai suoi piedi in fondo al letto. Le roselline che la dea lascia mollemente cadere alludono al fatale sfiorire delle bellezza e sono quindi un invito a non lasciar scorrere invano il tempo breve della giovinezza e dell’amore. Una particolare cura il pittore dedica alla folta capigliatura rossastra della dea: i suoi capelli ramati e riccioluti (secondo la maniera caratteristica di Tiziano) sono in parte sciolti e in parte raccolti in una lunga treccia che le avvolge la nuca. Diversamente dalla Venere dormiente (1510 circa) del Giorgione, sdraiata languidamente sulla nuda terra in un arioso e luminoso paesaggio senza tempo, l’ambientazione di questa Venere tizianesca, concepita anche come modello erotico-educativo per la giovane moglie del Duca di Urbino, è l’interno di una casa patrizia rinascimentale del Cinquecento. Lo sfondo del dipinto è diviso a metà: la parte sinistra rispetto a chi guarda è occupata da un pesante tendone scuro che finisce cadendo perpendicolarmente dietro l’inguine della dea; l’altra metà si apre sulla scena all’interno della casa dove vediamo due ancelle intente a scegliere da una cassapanca i vestiti che indosserà la dea. Una di bianco vestita che vediamo solo di spalle sta rovistando ginocchioni nel cassone, l’altra, ritta in piedi, tiene un ricco vestito sulle spalle. La luce che illumina la scena proviene da varie parti: dal proscenio, dalla bifora sullo sfondo dove su un cielo al tramonto si stagliano un vaso di mirto e i rami scuri di un albero che ci fa immaginare un giardino all’esterno della casa, e da una fonte di luce che illumina da sinistra la scena come si deduce dall’ombra che l’ancella ginocchioni proietta sul pavimento a riquadri e quella in piedi sulla parete dietro di lei. Da notare anche il forte contrasto tra la luminosità del nudo in primo piano e l toni scuri dello sfondo dove spicca la macchia bianca del vestito dell’ancella vista di schiena mentre sceglie un vestito adatto alla dea nella cassapanca istoriata. Quest’opera, stranamente snobbata dal Vasari, ha riscosso un successo strepitoso soprattutto in Francia (si pensi solo alla copia che ne fece Ingres e il rifacimento di Manet nella sua Oyimpia e all’ammirazione incondizionata da parte di Renoir). 

  FULVIO SGUERSO

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