Lettura di un’immagine: Giuditta II
LETTURA DI UN’IMMAGINE 34
Giuditta II Olio su tela (1909) di Gustav Klimt
Galleria int. d’arte moderna – Ca’ Pesaro – Venezia |
LETTURA DI UN’IMMAGINE 34
Giuditta II
Olio su tela (1909) di Gustav Klimt
Galleria internazionale d’arte moderna – Ca’ Pesaro – Venezia
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Mentre la prima Giuditta del 1901 è ritratta frontalmente dalla cintola in su e ci guarda con occhi socchiusi e ammiccanti, questa seconda Giuditta del 1909 è a figura intera, è girata di tre quarti e guarda fisso qualcosa verso la sua destra senza degnarci di uno sguardo. Qui la giovane vedova ebrea si assottiglia e si allunga verticalmente e sinuosamente come in una stampa giapponese; se nella prima Giuditta dominano i toni chiari e l’oro dei mosaici bizantini e ravennati, in questa seconda Giuditta (che davvero sembra invecchiata di otto anni) l’oro caratterizza la chiara e larga cornice che separa lo spazio stretto e pieno della tela dal resto del mondo e alcuni motivi spiraliformi dello sfondo; all’interno, se si eccettuano le parti scoperte del corpo della donna, prevalgono i toni scuri. In questa seconda Giuditta, spiccano il profilo del volto stradipinto, separato allusivamente dal resto del corpo (come del resto lo era anche nella prima Giuditta) da una stretta e pesante collana, il busto messo a nudo ma più gracile rispetto a quello del 1901 e quelle mani contratte che sono state capaci di uccidere: la destra stringe la gonna scura tempestata di figure geometriche colorate, la sinistra tiene per i lunghi capelli la testa di Oloferne seminascosta tra le pieghe di quella lunghissima veste che la cornice non riesce a contenere. La plasticità del corpo e la sinuosità delle linee che salgono verso la parte alta della figura contrastano fortemente con la staticità della nera e folta capigliatura bipartita di Giuditta. Lo sfondo è decorato con motivi geometrici a spirale che ricordano la ricorsività delle geometrie cosmatesche tipiche dei pavimenti a mosaico di tante chiese romaniche del XII e XIII secolo, certamente note al pittore. Quanto al significato di quest’opera, che si iscrive pienamente nel clima culturale decadente della Vienna di fine Ottocento e inizio Novecento, la città di scrittori come Schnitzler, Hofmannsthal, Zweig e di musicisti come Arnold Schonberg e Anton Webern, di medici come Sigmund Freud e di filosofi come Ernst Mach, è lo stesso artista a indicarci, tramite alcuni particolari, che ci troviamo di fronte a una figura di donna ancora più perversa della prima Giuditta: le mani sono simili ad artigli, la testa di Oloferne è chiaramente la preda di un rapace in sembianze di donna, la quale è rappresentata come una specie di arpia che porta, invece della vita, la morte. Qui l’eros non ha niente di gioioso e lo stesso corpo femminile ha perso, dopo il delitto, il suo potere seduttivo: anche lei è costretta in angusto spazio, ha catturato la sua preda ma ora non sa che cosa farsene chiusa com’è entro quella cornice-gabbia dorata. Questo spiega perché in quell’unico occhio che guarda qualcosa al di là della cornice non c’è più seduzione ma paura: anche lei perderà la testa, già separata dal corpo da quella colorata e pesante collana, come l’uomo che ha prima sedotto e poi ucciso. In questa seconda Giuditta il sesso ha condotto i due personaggi a una stessa morte.
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