L’ETERNO RIPOSO
Per la totalità della presenza dell’uomo sulla Terra, questa gli è sempre stata matrigna, costringendolo a escogitare sempre nuove astuzie per attutire i disagi del vivere.
Se ai primordi e per i successivi millenni lo scarso numero di presenze umane e la lievità sull’ambiente dei suoi interventi non ne mostravano che i lati positivi, nella mente dell’uomo rimase ben inculcata l’impressione che la natura fosse un avversario da combattere giorno per giorno.
Un atteggiamento che non mutò neppure quando il suo numero cominciò a crescere, di pari passo all’affinata capacità umana di addomesticare la natura, coltivando nuove terre e passando dalle prime comunità di cacciatori-raccoglitori a coltivatori stanziali.
Gli ultimi 3 secoli videro il moltiplicarsi delle attività sia agricole che artigianali, con l’invenzione di macchine sempre più efficaci nel sollevare l’uomo dalle fatiche, concedendogli di abbassare le ore lavorative e godersi un maggior riposo, sia pure in teoria, se pensiamo alla divisione del lavoro capitalistica, per cui i vantaggi delle macchine andavano solo alla classe padronale, ben felice di sfruttare esseri umani, a patto però che costassero meno delle macchine.
Se l’800 vide accompagnarsi l’avvento massiccio delle macchine, ma con orari di lavoro massacranti o addirittura abbrutenti, se solo pensiamo al lavoro nelle miniere, il ‘900 avviò un sempre maggiore scarico dall’uomo alle macchine del lavoro fisico, sia nei campi che nelle fabbriche.
Nel mentre, lo sviluppo dell’industria chimica portò all’immissione di sempre nuovi composti, del tutto ignoti all’ambiente.
Questo cambiamento epocale era visto come positivo e privo di controindicazioni, sia, umanitariamente, per l’estensione degli agi alle classi meno privilegiate, sia per la crescita continua della ricchezza prodotta, che si cominciò a quantificare, evitando di mettere nel conto, col segno meno, gli scarti di lavorazione e di consumo.
Tant’è che sbocciò, negli anni tra una guerra e l’altra, il fenomeno del futurismo, che non era solo una vena artistica, ma il culto ideologico della macchina e della velocità. Il futurismo, tramite le esternazioni del suo fondatore, Tommaso Marinetti, e i suoi artisti, alcuni di notevole pregio, rappresentò l’apice del paradigma progressista, che vedeva il futuro in chiave esclusivamente migliorativa della condizione umana, inaugurando il mito della macchina e della velocità che la stessa consentiva, in una prospettiva che oggi guardiamo come puerile dall’alto delle vette raggiunte da allora dalla follia tecnologica.
I Paesi avanzati erano invece così soddisfatti dei risultati di questa nuova visione del mondo che, a partire dal secondo dopoguerra, vollero estendere anche al c. d. Terzo Mondo la propria religione progressista. Nel frattempo, grazie alle continue scoperte e al relativo miglioramento della qualità della vita (almeno in termini numerici e criteri quanto meno discutibili, se visti in retrospettiva), la popolazione globale cresceva in via esponenziale, provocando ripensamenti in un’esigua porzione dell’intelligentia.
Esigua porzione che s’era aggregata sotto il vessillo del Club di Roma, nei primi anni ’70, lanciando un monito a politici e imprenditori -il cui comune interesse era la crescita dei votanti e dei consumatori: per sfamare e salvare il numero crescente di bocche umane stiamo falcidiando le specie selvatiche e avvelenando i campi, le acque, l’aria.
Siamo, in sostanza, stati così bravi a moltiplicare gli umani, sfamandoli e curandone le malattie, che sono (siamo) diventati la nuova forma di infestante planetario.
Eppure, stentiamo ad ammettere che il dissesto ambientale e umano che stiamo vivendo da alcuni decenni è frutto delle nostre migliori intenzioni: migliori, se viste nella nostra ottica, in quanto tese all’esclusivo accrescimento della produzione di beni e servizi per dare maggiori agi al genere umano (e ultimamente anche ai suoi animali di compagnia), trascurando del tutto le ricadute negative sull’ecosistema e in particolare sugli altri esseri viventi, con lo sterminio di tutte le specie selvatiche, visto come “danno collaterale”.
In pratica, si usa una sorta di frusta ideale sui campi e nelle stalle per aumentare la produzione e sfamare il numero abnorme di umani. In parallelo, viene minata anche la sua salute, e ciò richiede il massiccio intervento riparatore della medicina, sempre secondo il paradigma di salvare quante più vite umane possibile, con ciò allungando anche la vita media delle persone, necessitanti di dosi massicce di farmaci, in una spirale perversa.
Sul fronte sociale, si hanno sempre meno persone in grado di lavorare, perché malaticce o vecchie; mentre la precarietà del sistema induce a fare meno figli. Un mix perfetto per il fallimento generale. E non si fanno meno figli solo in base a criteri economici, ma anche precauzionali: perché aggiungere un altro umano al numero già sterminato di suoi simili e alle condizioni di vita in costante peggioramento? Ed è davvero patetica l’ultima misura del governo Meloni di elargire un contentino di € 1000 per ogni nuovo nato.
Guardando a ritroso, ci accorgiamo che, più cerchiamo il benessere generale, fatto di fuga dalla fatica, fisica e mentale, più aumenta il malessere; più aumentano le ore del riposo giornaliero, mentre quello notturno è indotto da pillole di ogni genere, più si anticipa in vita l’eterno riposo post mortem, diventando, di fatto, morti viventi. Una condizione che si cerca in ogni modo di contrastare con l’immissione dei più disparati tipi di divertimenti, ossia di rimozione del pensiero della morte.
Traggo qui, come inciso, questa considerazione dalla visuale di Girard e di altri pensatori del passato a proposito della Genesi e della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre
Se in alcune comunità cenobitiche risuonava il memento “ricordati che devi morire”, inteso come esortazione a staccarsi dalla contingenza del quotidiano e del profano, per trasporsi nella dimensione del sacro e dell’eterno; oggi, al contrario, senza più certezze, temporali e tanto meno eterne, cerchiamo di confondere nel frastuono delle odierne giornate lo spettro di una morte -il cristiano “passaggio a miglior vita”- che più si cerca di allontanare, più si creano le condizioni per un suo avvicinamento.
L’uomo contemporaneo è sempre in fuga dal contingente che lui stesso ha creato, ma porta con sé ciò da cui sta scappando: il chiasso dell’agglomerato urbano lo segue nella sua ricerca dell’oasi incontaminata, nello “scampolo di paradiso” dove assaporare, in completo relax, il meritato riposo. Con ciò ritagliando un’altra tessera di vita urbana nel posto dove avrebbe voluto scacciarla. In un costante rovesciamento dei fini, la ricerca di qualcosa finisce per metamorfizzarsi nel suo contrario.
Negli ultimi anni, col ritorno improvviso delle guerre, assistiamo al puerile scambio di colpi, in un crescendo di intensità, per ottenere la pace finale (che molte vittime trovano, in effetti, come un anticipato quanto indesiderato “eterno riposo”). Il ‘900 ci ha insegnato, attraverso due guerre, quanto questo gioco al rialzo sia devastante per tutti. Il secolo attuale ha inaugurato una nuova strategia: armare terzi e farli combattere al posto nostro, nell’illusione di poter assistere ai massacri da semplici spettatori, come chi assiste da riva ad una nave che lotta contro il mare in tempesta. O come le folle dell’antica Roma che affollavano i circhi per assistere alle lotte all’ultimo sangue dei gladiatori.
Il concetto sotteso a queste mie note ha origini antiche e si riflette nel principio alchemico di base, simboleggiato nel serpente che si morde la coda (uroboro).
Infine, merita un accenno l’attuale entusiasmo trasversale per l’Intelligenza Artificiale (IA). Anche quest’ultima scoperta sembra dar forma compiuta alla transizione dall’uomo alla macchina, alla ricerca del riposo, fisico e mentale; dimenticando però che, quante più funzioni si tolgono all’uomo per trasferirle alla macchina, in questo caso persino la facoltà di effettuare scelte, intaccando così la facoltà primaria del libero arbitrio, tanto più l’uomo finisce col diventare una cattiva copia delle sue creature, liberato dalla fatica del lavoro fisico e spossessato delle difficoltà attinenti le decisioni e le scelte. Lasciare ad altri il compito di scegliere spesso ci libera da un’angustia; ma è segno di viltà delegare responsabilità che attengono esclusivamente alla nostra coscienza, peraltro sempre meno individuale nel suo sfilacciarsi in una incoscienza di massa, nel “così fan tutti”.
P. S. Ad articolo già impostato mi capita di leggere questo:[VEDI] c’è un movimento, o meglio un programma, stilato da studiosi di varie università nord-europee, denominato “lungotermismo”, ossia proiettato nel futuro, anche molto remoto, che si preoccupa più dei posteri che degli attuali abitanti della Terra. A prima vista, sembrerebbe un’iniziativa condivisibile, finanziata da un nutrito gruppo di miliardari, da Elon Musk a vari magnati della Silicon Valley, passando per il solito Bill Gates; ma, procedendo nella lettura del programma, che indica, tra varie minacce, il riscaldamento globale e l’AI (quasi non vi concorressero essi stessi in misura determinante), si scopre che, lungi dal ripudiare l’escalation anche in questi campi (oltre che nelle guerre), si perora come soluzione ultima la fuga dal nostro pianeta per “colonizzare altri pianeti del Superammasso della Vergine”, allungando nel contempo la vita dell’homo (in)sapiens. Mi sembrano i neofuturisti del nuovo millennio, animati dallo stesso puerile entusiasmo dei loro predecessori. Il principio di fondo è sempre lo stesso: mai sterzare dalle tendenze attuali, ma esasperarle fino alla resa e fuga finale.
Marco Giacinto Pellifroni 20 ottobre 2024