L’eros divino (seconda parte)

Una mia lettura del Simposio di Platone
L’EROS DIVINO
Seconda parte

Una mia lettura del Simposio di Platone
L’EROS DIVINO
 
SECONDA PARTE
 

Socrate comincia il suo discorso dichiarando, ironicamente, di sentirsi in difficoltà, dal momento che gli tocca parlare dopo l’applauditissimo discorso del giovane poeta tragico Agatone, il padrone di casa  (festeggiato perché vincitore, con la sua prima tragedia, alle Grandi Dionisie del 416 a. C.), e, rivolto a Erissimaco che non  lo crede possibile, insiste:  “E come potrei, ragazzo mio,  non trovarmi in difficoltà, io come chiunque altro, dovendo parlare al termine di un discorso così bello e così variegato? E se non tutto ha brillato della stessa luce, chi non si sarebbe sbigattito udendo, sul finire, tutte quelle meraviglie di parole e di frasi? Tanto che io, riflettendo che non sarei stato in grado di dire nulla di bello che soltanto vi si approssimasse, per poco non sono scappato via per la vergogna”. E prosegue confessando, sempre con ironia, di scoprirsi inesperto delle cose d’amore, e quindi di non essere in grado di tesserne l’elogio; anche perché, nella sua ingenuità, credeva che elogiare qualcosa consistesse nel dire su di essa nient’altro che la verità, e di farlo in modo tale da metterne in luce il valore. Ora, invece, si rende conto che non si tratta di dire la verità intorno a qualcosa ma di decantarne i pregi, li abbia o meno. Sia come sia, se i convitati vogliono ascoltare anche il suo discorso, dovranno permettergli di farlo a modo suo. Ottenuto l’assenso di tutti, Socrate chiede a Fedro il permesso di rivolgere alcune domande ad Agatone. Permesso accordato. A questo punto, con una serie di domande mirate conduce il giovane (e bel) poeta a riconoscere che, diversamente da quello che aveva detto nel suo discorso, Eros non può definirsi né bello né buono; se infatti uno dicesse: “io che sono sano voglio appunto essere sano, e io che sono ricco voglio appunto essere ricco, e desidero le cose che ho”, noi potremmo obiettargli che, siccome già possiede le cose che ha, è come se dicesse “desidero che le cose presenti mi siano presenti anche in futuro”. Analogamente “Amare ciò che non si ha ancora a disposizione e non si possiede, non si identifica forse nel desiderare che questi beni restino intatti e presenti anche in futuro?”. Quindi, se è così, significa che chiunque desideri ciò che non è nella sua disponibilità “desidera ciò che non è presente, ciò che non possiede e ciò che egli non è e di cui tuttavia sente la mancanza, questo è appunto ciò di cui ha desiderio e che ama”, dato che l’amore è sempre amore di e per qualcosa, proprio come si è sempre padri o figli di qualcuno. Vediamo qui in atto il metodo socratico, la famosa “maieutica”, cioè l’arte della levatrice; e si sarà notato il salto di qualità di questo discorso rispetto ai precedenti: dalla mitologia e dalla retorica, sia pur raffinata,  siamo passati alla dialettica: “Suvvia dunque, riepiloghiamo i punti su cui siamo d’accordo: Amore è in primo luogo amore di qualcosa, e in secondo luogo amore di ciò di cui si ha mancanza? E, se è così, ricordati di che cosa hai detto, nel tuo discorso, che Amore è amore. Ricordi?


Socrate (scultura)

Hai detto che la vita degli dei ha raggiunto un assetto ordinato in virtù dell’amore del bello (non potendo darsi amore di bruttezza). Non è così? Infatti, e se le cose stanno così, Amore non può non essere che amore di bellezza e non già di bruttezza. Giusto? Quindi, se abbiamo convenuto che si ama ciò di cui si ha mancanza e che non si possiede, dobbiamo concludere che Amore non ha la bellezza ma la desidera, e se non ha la bellezza come puoi dire che sia bello?”. Agatone è quindi costretto ad ammettere che si era sbagliato e di “non aver capito niente”. “Eppure hai parlato con arte – continuò Socrate – Ma rispondi ancora a questa piccola questione: non credi che il bene sia anche bello? Certo. Se dunque Amore difetta del bello e il bene è bello, egli deve difettare anche del bene. Non saprei come contraddirti, o Socrate, hai ragione tu”. Socrate però precisa che non a lui Agatone non è in grado  di controbattere, ma alla verità.  Da questo momento in poi,  Socrate lascia in pace Agatone e ci avverte che si limiterà a riferire le cose dettegli da una sacerdotessa di Mantinea, Diotima, molto più esperta di lui nei misteri di Eros. Che cosa apprende Socrate da Diotima (personaggio inventato da Platone)? Apprende cose che contraddicono tutti i discorsi precedenti: Eros non è né buono né cattivo, né bello né brutto, ma è qualcosa di intermedio tra l’un termine e l’altro; non è né un dio né un uomo, è un demone, cioè un essere intermedio tra il divino e l’umano. Per spiegarne la sua strana e complicata natura, Socrate riferisce il  mythos della sua nascita da Poros (Risorsa, Aquisto) e Penia (Povertà), narratogli da Diotima, rivelando un altro aspetto della sua natura: egli non è né sapiente né ignorante , ma qualcosa di intermedio tra l’ignoranza e la sapienza. Ma come avvenne che Eros fu concepito  da Penia? “Quando nacque Afrodite – racconta Diotima – gli dei si riunirono a banchetto, e c’era fra loro Poro, figlio di Meti (la prima moglie di Zeis, madre di Atena, dea della sapienza). Terminato il pranzo, arrivò per mendicare, data l’occasione festiva, Penia, e girava intorno alle porte. Intanto Poro, ubriaco di nettare, entrò nel giardino di Zeus e, appesantito com’era, si addormentò. Allora Penia, meditando nella sua indigenza di avere un figlio da Poro, gli si distese accanto e concepì Eros. Ed è per questo che Eros è diventato seguace e ministro di Afrodite, in quanto fu concepito nel giorno della sua nascita e, nel contempo, è per sua natura amante del bello, dato che Afrodite è bella.


 

Perciò, in quanto figlio di Poro e di Penia, Eros si trova in questa condizione: anzitutto è sempre povero e tutt’altro che tenero e bello, come ritengono i più, anzi è aspro, incolto, sempre scalzo e senza casa, e si sdraia davanti alle porte e vaga per le strade come sua madre, sempre accompagnato dall’indigenza”. Per parte del padre, invece, “insidia i belli e i virtuosi, è coraggioso e ardito e veeemente, e cacciatore astuto, sempre pronto a tessere intrighi, avido di sapienza, ricco di risorse, e, per sempre innamorato del sapere…”. Ecco: innamorato del sapere, cioè filosofo; abbiamo qui l’erotizzazione originaria e costitutiva della filosofia, fondata su Eros, non sul logos! Ma quali sono i benefici effetti di questo demone sugli uomini (delle donne, per il momento, non se ne parla)? Diotima risponde, previa una lunga e accurata disquisizione semantica sulle parole “poeta” e “amante”, che Eros instilla negli amanti il desiderio di generare nella bellezza, sia essa del corpo che, a maggiior ragione, dell’anima. Questo significa che la bellezza è la condizione necessaria al generare, e il generare è la condizione necessaria alla perpetuazione della vita stessa. La conclusione di Diotima è dunque che Eros non è amore del bello ma “della generazione e del partorire nel bello”, in quanto la generazione, nei corpi o nelle anime,  è l’unico modo che hanno i mortali di vincere la morte. “E sulla base di quanto abbiamo convenuto, ne consegue che Eros desidera l’immortalità in unione con il bene, se è vero che è amore è desiderio di possedere perennemente il bene. Ecco perché Eros non può non amare anche l’immortalità”. Questo desiderio, anzi, questa brama di immortalità, rende ragione anche dell’impulso fortissimo che provano tutti gli animali quando è il momento giusto per l’accoppiamento e per generare una nuova vita: la generazione è la sola via per il rinnovamento di ciò che è invecchiato, e non solo tramite il  procreare altri esseri avviene il rinnovamento ma anche negli individui, i quali solo apparentemente rimagono simili a se stessi,  in realtà mutano e si rinnovano continuamente nel corpo e nello spirito. E questo spiega anche la passione che muove gli uomini a compiere grandi imprese e opere che sopravvivano alla loro vita mortale: la generazione spirituale è la più alta a cui possa tendere un uomo. A tutte queste cose, secondo Diotima, Socrate avrebbe potuto arrivarci da solo, ma dubita che avrebbe potuto raggiungere da solo l’ultimo tratto della via sulla quale ci conduce il demone d’amore. Quest’ultimo arduo tratto consiste nella continua ascesa dalla bellezza di un singolo corpo  a quella presente i tutti i corpi belli, e da questa, alla bellezza delle anime  e, dalla bellezza delle anime a quella delle istituzioni della polis, e da questa a quella delle scienze particolari e, finalmente, a quella della scienza delle scienze, che è la scienza del bello in sé, raggiungendo  così quella meta che rende la vita veramente degna di essere vissuta. Quindi, in conclusione, Socrate, persuaso da Diotima, intende persuadere gli altri a mettersi su quella via che, grazie a Eros, può portare ciascuno alla meta più alta: la visione della bellezza (e quindi anche del bene) in sé. Così finisce il discorso di Socrate: “E dunque, o Fedro, questo discorso fa’ conto, se vuoi, che sia stato pronunciato come un encomio di Eros, altrimenti, dagli il nome che più ti piace”. Il discorso successivo sarà quello del sopraggiunto Alcibiade, che parlerà in lode non di Eros ma di Socrate.  Ma su questo discorso di un innamorato prestigioso, ubriaco d’amore e di-vino, diremo magari in un’altra occasione…

FULVIO SGUERSO

 

 

 

 

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