Le morfologie del capitale politico nell’epoca della transizione

 

LE MORFOLOGIE DEL CAPITALE POLITICO

nell’epoca della transizione 

LE MORFOLOGIE DEL CAPITALE POLITICO

nell’epoca della transizione

di Nat Russo

L’epoca della transizione.

Attraverso quali meccanismi avviene oggi la formazione e la selezione della nuova classe dirigente politica? In passato questo avveniva attraverso la militanza in un partito politico. E’ ancora vero ciò?

In Italia aderivano ad una formazione politica il 4,1% (4,5% in Europa) degli aventi diritto al voto e svolgevano una militanza attiva il 2,3% (2,1% in Europa).

Se incrociamo questi dati con quelli relativi ai costi della democrazia, (in Italia, venivano stimati, per difetto, circa 500.000 politici di professione), possiamo concludere che la consistenza della membership e della leadership nei partiti politici convergeva in maniera paradossale. Tanti dirigenti, tanti militanti.

Questa immagine dei partiti politici, a metà strada tra vecchi ruderi disabitati e club esclusivi di dirigenti, forse è impietosa, ma è certo che, la cellula politica, dove i militanti ed i simpatizzanti, chiamati alla mobilitazione, discutevano appassionatamente fino a tardi la linea politica proposta dalla direzione del partito e, nel confronto dialettico, si selezionavano i quadri ed i candidati alle diverse tornate elettorali, appartiene all’oleografia del secolo scorso.

I partiti che non contribuiscono più alla formazione ed alla selezione dei quadri, sono diventati, di fatto, sigle e strutture autoreferenziali, con marcata tendenza alla personalizzazione, al solo scopo di veicolare il consenso.

Ma allora, quali prospettive si presentano a chi volesse oggi intraprendere una “carriera” politica?

Di quali doti deve disporre, per poter raggiungere il successo personale della sua elezione e contribuire ad innescare, quindi, il mix virtuoso di una positiva crescita economica del comprensorio che è chiamato ad amministrare e di un efficace sviluppo umano collettivo dei suoi abitanti?

Per dare una risposta a questi quesiti possiamo mediare i criteri socioeconomici con cui vengono lette le diverse morfologie del capitale e declinarli in chiave politica.

Secondo questa metodologia il capitale assume 3 forme:

1. Il capitale fisico, materiale, costituito dai beni tangibili, fisso e finanziario.

2. Il capitale umano, immateriale, costituito dalle doti intellettuali e dall’istruzione.

3. Il capitale sociale, immateriale, costituito dalla rete di relazioni.

Se dal mix virtuoso di essi deriva il successo economico, come si traduce questo in campo politico?

In cosa consiste oggi il capitale fisico di un candidato?

Perso, in gran parte, il capitale fisso territoriale, fatto dell’articolazione sul territorio di sedi, veri info-point delocalizzati della casa madre di appartenenza politica, che garantivano comunque una rete vasta quanto il collegio, dove sviluppare la comunicazione della propria immagine come base di mediazione tra il centro e la periferia, e garantivano una buona messe di preferenze dal voto di opinione, cresce oggi la necessità di compensare questa carenza con un capitale finanziario, indispensabile per costruirsi una buona visibilità personale.

Ciò si traduce nella necessità del reperimento di ingenti risorse economiche, strutturate attraverso un comitato elettorale di raccolta fondi. Ma una struttura permanente di tal fatta, avrebbe costi esorbitanti, quindi, l’azione di veicolazione del consenso, si concentra nel solo periodo della campagna elettorale e si concretizza nelle forme di un temporaneo ufficio politico personale, dove costruire insieme al proprio staff un proprio programma elettorale, da presentare poi pubblicamente, grazie all’aiuto di un comitato elettorale, attraverso eventi differenziati per le diverse tipologie di potenziali elettori.

Due le principali degenerazioni:

1. il comitato elettorale diventa una lobby affaristica, per gli interessi di pochi contro quelli di molti;

2. la circoscrizione temporale della campagna elettorale, permette l’accessibilità politica del futuro rappresentante da parte dei suoi potenziali elettori solo per un breve periodo e, una volta eletto, diventa di fatto, poco rintracciabile per la maggioranza di loro.

L’esigenza di nuove modalità aggregative popolari, volte a costituire una base sociale permanente e durevole, al cui interno emerga, come loro espressione, una convincente leadership, appare in tutta la sua urgenza.

Passiamo ad esaminare la seconda componente del capitale: il capitale umano.

Il professionismo politico, al di là delle sue degenerazioni carrieristiche, nelle sue espressioni più virtuose, portava con sé, almeno una certa professionalità burocratico – procedurale. Ma oggi, quali sono le strutture formative su cui, un aspirante politico, può basare il potenziamento del proprio capitale umano? Finita l’epoca, certo discutibile, delle scuole di partito, resta un desolato deserto. Se aggiungiamo che, una parte sempre crescente dei candidati, è prestato alla politica dalla cosiddetta società civile, abbiamo un quadro non troppo edificante sulla qualità del capitale umano mediamente disponibile.

L’esigenza di una formazione propedeutica all’ingresso in politica, e un costante political learning lungo il periodo di esercizio, diventa un’urgenza non altrimenti differibile.

Ma è soprattutto sul capitale sociale che si deve, oggi, concentrare l’attenzione del futuro aspirante politico, poiché direttamente connesso alla gestione del consenso. Non potendo contare che parzialmente sullo zoccolo duro di  un serbatoio di voti assicurati dal voto di opinione partitico, su cosa può puntare un aspirante politico? La rete di relazioni è fondamentale.

Se dal punto di vista finanziario, è essenziale il contributo dei rapporti individuali, basati sulla stima della propria abilità di saper portare a buon fine gli interessi lobbistici, dal punto di vista numerico il risultato, pur qualitativamente di alto profilo, non è sufficiente quantitativamente ad assicurare un’elezione.

Infatti si è andato profondamente modificando il versante socioeconomico, da cui poter attingere potenziali elettori in maniera quantitativamente significativa, per il prolificare di una vastissima serie di tipologie di attori, operanti con specifiche filosofie operative destrutturate per sopravvivere al continuo divenire dell’oggi. La difficoltà consiste nelle due principali caratteristiche che accomuna questi soggetti e questi fenomeni: la polverizzazione in tante microrealtà sociali ed il modo nomade di spalmarsi sul territorio, reale e/o virtuale.

Di qui nasce la necessità di rivolgere l’attenzione verso organizzazioni strutturate di potenziale consenso, in cui le convinzioni dei propri aderenti siano omogenee verso una finalità comune. Sposare quella finalità sarà il principale elemento attrattore di consensi multipli.

Si è soliti definire con un termine unico omnicomprensivo questa galassia: associazionismo.

Si tratta di un bacino ampio, in Italia il 42% (48,8% in Europa) della popolazione, i cui militanti esprimono un livello di fiducia negli altri del 32,6% (30,3% in Europa), notevolmente più alto di quanto esprimono i non facenti parte di associazioni. Ma, soprattutto, si tratta di potenziali elettori reali, in quanto, in loro, il livello di civicness è molto più pronunciato rispetto ad altre categorie, che contribuiscono ad alimentare più facilmente la crescente schiera dei demotivati, potenziali astensionisti. Ma prosciugare il bacino dei motivati oggi basta per vincere una campagna elettorale? No, perché la pratica degenerativa dell’acquisizione di questo consenso attraverso la strutturazione di un voto di scambio, ha finito per scatenare guerre intestine tra i competitors di aree affini dell’associazionismo, generando nuove sacche di delusi che alimentano la crescita dell’area grigia del non voto.

Infatti anche il mondo strutturato dell’associazionismo è in un fermento de-strutturante.

Analizzare, questo mondo e quelli attigui, ci permette di effettuare una lettura del mutamento sociale attingendo direttamente a quelle che sono le fonti generative più ricche e feconde della capacità di auto-organizzazione sociale.

Se una volta ci si aspettava tutto dai politici, oggi non ci si aspetta più nulla (se non di scoprirne le malefatte). Insomma si è passati dall’aspettativa del troppo alla rinuncia del troppo poco.

Definire questi soggetti, non è comunque impresa facile. In essi, infatti, si confrontano fermenti e dinamiche differenti, difficilmente ordinabili e classificabili secondo una lettura olistica, che privilegia attori ipersocializzati, la cui azione è governata da meccanismi macrosociali.

Ma non risultano efficaci neppure algoritmi di lettura azionistica, che vedono un attore iposocializzato e condizionato da parametri microsociali self interested.

Più incisiva risulta, invece, una lettura relazionale, che vede un attore mesasocializzato, fortemente influenzato, nelle sue scelte ed azioni, dalle relazioni interpersonali, costituite da una fitta rete di legami sociali (famigliari, amicali, territoriali, politici, religiosi, ecc.) caratterizzati da modalità operative di impronta, ora di tipo solidaristico, ora simboliche.

Pur non giungendo ad una lettura esaustiva del complesso dei fenomeni oggi in atto, tuttavia, tale approccio, permette già di intravedere alcune linee di demarcazione, utilizzabili come prospettive di una più fertile lettura.

Cominciamo col chiederci: secondo quali discriminanti comuni e specifiche operano oggi gli attori più performativi dell’associazionismo?

Una prima risposta possiamo darla dicendo che operano, principalmente, secondo una visione del mondo che riconferisce alla persona una sua totalità umana non disgiungendo l’homo economicus dall’homo socialis.

Ciò vuol dire mettere al centro una prospettiva di approccio etica, caratterizzata da uno sguardo valorizzatore nei confronti dell’altro, a cui si concede fiducia (spesso al di là di ogni ragionevole credibilità, specie se misurata con parametri socioeconometrici teorici classici).

Questo sguardo è reciproco, sia se l’azione è autodiretta, a beneficio dell’associazione stessa o dei suoi membri, sia se eterodiretta, a beneficio di un soggetto esterno, modalità in cui è possibile individuare con più chiarezza un utente ed un erogatore.

In ogni caso, ciò che contraddistingue l’approccio, è la comunanza di senso, la consapevolezza di cosa fa l’uno per l’altro, che spesso accomuna utente ed erogatore.

L’altra importante questione è quella di comprendere come contribuisce questa mentalità, che è anche una modalità operativa, a modificare la realtà socioeconomica circostante.

Avviene nelle maniere più disparate.

Da una parte c’è una chiara identificazione del senso di quello che si fa (utilità sociale). Dall’altra un’effettiva valenza di prospettiva per la crescita economica e lo sviluppo umano, individuale e collettivo.

Questo modello diventa praticabile, numericamente significativo, economicamente autosostenuto (e non solo sovvenzionato), in costante crescita quantitativa ed in espansione in settori di impianto più specificamente solidaristico.

Emblematico è l’esempio di alcuni interventi in situazione socioeconomica debole. Ciò si realizza principalmente, attraverso una politica di autoimpiego, centrata sulla valorizzazione del concetto di libertà personale, intesa come bene sociale fondante, per cui si può diventare artefici del proprio destino aiutandosi reciprocamente (anziché ostacolandosi reciprocamente, come sembrerebbe che le leggi economiche impongano), con l’emersione, la regolarizzazione ed il crowdfunding  alle microimprese informali; con la conseguenza di far evolvere il complesso della società verso lo sviluppo umano e l’equità sociale; una prefigurazione circoscritta di un ideale di democrazia partecipativa più vasta, tipica di questa età di transizione.

Solo creando una nuova rete sociale, che riporti i delusi alla politica partecipativa, oggi è possibile uscire dalla crisi di credibilità che investe la vita collettiva. Ciò si può fare favorendo la nascita di nuovi grandi canali fiduciari verso cui fare convergere i mille rivoli delle concrete espressioni di progettualità e solidarietà sociale già in atto. Una riedizione aggiornata del principio di sussidiarietà che attraverso l’operato di una rete di creative commons community ci traghetti dal welfare state (costoso, clientelare ed inefficiente) alla welfare society (agile, motivata ed autosufficiente) attraverso un percorso smart di vera rifondazione sociopolitica.

NAT RUSSO 

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