Le mie prigioni” del Terzo Millennio: Alemanno, l’Abate Faria e i lutti della democrazia pentita
Le mie prigioni” del Terzo Millennio: Alemanno, l’Abate Faria e i lutti della democrazia pentita
C’è una linea sottile — e a tratti insopportabilmente ipocrita — che separa il rigore della legge dal pianto postumo della coscienza collettiva. Quella stessa linea che trasforma un uomo da emblema del potere a simbolo della caduta, da carnefice dell’apparato istituzionale a martire del garantismo dimenticato. Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma, si trova oggi al centro di questa parabola tragica, non solo giuridica ma profondamente umana e politica, come un moderno Silvio Pellico che scrive le sue prigioni dal braccio G8 di Rebibbia.
La sua vicenda scuote e interroga, non tanto per la condanna in sé — un anno e dieci mesi per traffico di influenze — quanto per il clima da “redenzione negata” che aleggia intorno al suo nome. È stato revocato l’affidamento ai servizi sociali a causa di violazioni regolamentari: incontri non autorizzati, probabilmente anche un eccesso di protagonismo politico, eppure nulla che possa giustificare, agli occhi di molti, l’inflessibilità della reclusione.
Un coro trasversale di invocazioni, da Manconi a Sansonetti, da Giachetti a Mazza, fino agli ex radicali di Nessuno Tocchi Caino, solleva oggi un appello: «Ma non ha già sofferto abbastanza?». La domanda non è retorica. Non lo era nemmeno per Marco Alemanno, compagno di vita di Lucio Dalla, costretto a subire in silenzio un lutto pubblico, senza neppure l’accesso ai diritti minimi riconosciuti a un coniuge. Come non lo fu per l’abate Farina, morto d’inedia nei sotterranei del regime borbonico, schiacciato da una giustizia che si tramutava in vendetta. Perché, in fondo, l’Italia è sempre stata abile nel punire e lentissima nel perdonare. Prima sbaglia, poi piange.

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Nel diario dal carcere, Alemanno descrive con lucidità una realtà che travalica la sua vicenda personale. Celle sovraffollate, spazi indegni, oggetti riciclati con l’ingegno disperato dei detenuti, e quel senso di comunità che, in un paradosso amaro, sembra l’unico presidio di umanità rimasto. Parla di rieducazione, di dignità, di speranza. Lo fa con parole che non vogliono commuovere ma denunciare. Non si tratta qui di assolvere moralmente un politico, ma di chiedersi se lo Stato debba diventare carceriere vendicativo o pedagogo implacabile.
L’Italia del diritto penale mediatico, la stessa che invoca la gogna per poi accorgersi — troppo tardi — dell’umanità del condannato, è quella che oggi firma petizioni e si commuove. È quella che celebra il reinserimento sulla carta costituzionale, ma poi guarda con sospetto ogni alternativa alla galera. È la stessa che nel 1832 chiuse Pellico nella fortezza di Spielberg e oggi chiude Alemanno in una cella senza acqua calda, dimenticando che la pena, per essere giusta, non può prescindere dalla persona.
Quella persona oggi è Gianni Alemanno. Non l’ex sindaco, non il volto di una stagione controversa, ma l’uomo. Un uomo che ha sbagliato, forse gravemente, ma che ha anche accettato di pagare. E se davvero crediamo che la giustizia sia qualcosa di diverso dalla vendetta con l’ermellino, allora la domanda torna, martellante, come un’eco nella coscienza collettiva: Ma non ha già sofferto abbastanza?
Se i grandi errori della Repubblica sono anche gli errori della sua memoria, allora ogni caso come questo — nel silenzio ovattato delle carceri — dovrebbe insegnarci che il garantismo non è un privilegio, ma il fondamento di ogni civiltà. E che prima di giudicare, sarebbe sempre meglio ricordare. Perché le lacrime dell’Italia arrivano sempre dopo. E quando arrivano, spesso è già troppo tardi.