L’autista di Icaro: Ayrton Senna, il pilota che guidava con il cuore al posto del motore
L’autista di Icaro: Ayrton Senna, il pilota che guidava con il cuore al posto del motore
Dedicato a Federico
Troppo comodo fare gli auguri ai compleanni o scrivere parole di circostanza alla vigilia di Natale, Pasqua o Capodanno.
Quando si parla di un fuoriclasse come Ayrton Senna, un uomo mai raggiungibile nel tempo, bisogna infrangere ogni regola: niente date, scadenze o ricorrenze. Non ne parleremo il giorno del suo compleanno — i prossimi sarebbero 65 — né il Primo Maggio, giorno in cui, a 34 anni, se ne andò per sempre, a “guidare nell’infinito”.
Ne parliamo oggi, 25 ottobre, una data qualsiasi, che non coincide con un Gran Premio. Domani ci sarà una gara, ma tanto non è più la Formula 1 vera: oggi è fatta di sponsor, simulazioni e piloti cresciuti sui simulatori.
Ormai basta saper usare la PlayStation, la Xbox o la PSP a tre anni, avere qualche milione di euro, e magari arrivi a correre. Ai tempi di Senna, invece, con quella fortuna avresti potuto al massimo guidare un sulky o un’ApeCar.
E allora, per una volta, gustiamoci un panettone a Ferragosto o delle frittelle calde in pieno inverno: parliamo del vero, dell’unico pilota mai esistito capace di guidare come se avesse le mani sulle sospensioni, i piedi sulle gomme, la testa sui cordoli, il cuore al posto del motore e le chiappe come telaio.
Un brasiliano nato per la velocità

Senna e Carol Alt
Ayrton Senna da Silva era un brasiliano dai lineamenti da copertina, come Éder, Zico o Falcão: stava bene in tuta ignifuga quanto in smoking. Era di famiglia più che benestante, ma — come Niki Lauda — non fu aiutato dalla famiglia nel suo percorso sportivo. All’epoca, correre in Formula 1 era quasi un atto di ribellione: ti dicevano “non farlo” e, se insistevi, erano affari tuoi.

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Già dai primi test in Formula 3, dopo aver dominato sui kart, si distinse per la straordinaria capacità di mettere a punto la vettura, di ascoltare i meccanici e migliorare ogni dettaglio.
Erano gli anni in cui la telemetria era più simile a uno schedario che a un sistema digitale: nulla a che vedere con l’ingegneria virtuale di oggi.
Senna andava forte sul bagnato, fortissimo sull’asciutto, e devastante quando le condizioni erano ideali.
Con la sconosciuta Toleman, sponsorizzata Candy, al suo debutto in Formula 1, spaventò tutti: rompeva gli equilibri di un circo dove “un po’ vinco io, un po’ vinci tu” era la regola.
Il genio contro il sistema
Era l’epoca di Prost e degli altri “senatori”, d’accordo in toto con la FIA e la FISA. Decidavano quando e come correre: se pioveva, meglio rinviare; se nevicava, si andava a sciare.
Lauda ormai era sazio, Hunt si godeva la vita, Piquet e Prost, con Jean-Marie Balestre, avevano creato un sistema autoreferenziale, un “volemose bene” del Circus.
I circuiti erano sempre gli stessi: Argentina a gennaio, Brasile a febbraio, Sudafrica a marzo. Guai a protestare: o accettavi o finivi in America, a girare sugli ovali, “il giro dell’oca a moviola accelerata”, come disse un altro grande, Paletti.
Senna invece si arrabbiava, discuteva, puntualizzava. Era forse l’unico pilota a vincere con il proprio corpo, senza avere sempre i meccanici dalla sua parte.
Dall’altra parte c’erano trame, favoritismi e pettegolezzi. Lui soffriva in silenzio, cercava di spiegarsi invece che litigare, ma spesso finiva tradito da chi gli stava vicino.
Anche nel mondo dei media, dove molti gli leccavano il sedile per poi pugnalarlo alle spalle in favore dei colleghi più “ruffiani”.
La perfezione in pista
La carriera di Senna, se ci pensiamo, è brevissima.
Il 1986 lo consacra come pilota titolare, ma il suo apice arriva nel 1988, quando — con la McLaren Honda — vince il Mondiale con una superiorità disarmante.
Basterebbe rivedere la pole di Montecarlo, il famoso “giro del cielo”: la macchina sbanda, lui corregge con un gesto impercettibile, il cambio secco che punge le mani, i pedali che danzano come in una cyclette impazzita, l’uscita dal tunnel quasi cieca.
Un’opera d’arte, la Gioconda della velocità.
Dopo averlo visto, quando salite in macchina vi sembrerà di guidare un carro di Stanlio e Ollio.
Quell’anno fu dominio assoluto: Senna e la sua auto erano la perfezione. Avrebbe meritato di vincere per anni, come Agostini sulle due ruote — anzi di più, più di Marquez, Valentino Rossi o Schumacher.
I complotti, le rivalità e la fragilità umana
Ma la Formula 1 non è mai stata giusta.
L’anno dopo arrivarono tranelli, scontri e giochi di potere. Vinse Prost, il “professore”: un pilota bravo, ma allineato con il potere e gli sponsor, un Albano coi ricci, perfetto per il sistema.
Tra il 1990 e il 1991 Senna sembrava aver capito che dire la verità non paga. Conquistò il terzo titolo mondiale, e in molti pensarono che avrebbe dominato per un decennio.

Senna e il suo ultimo titolo mondiale
Ma era un uomo, non un dio. E come tutti gli uomini, volle vivere: auto top, case top, vacanze top… e una top model, la più bella del mondo.
Quel mondo glamour, però, era duro, subdolo, peggiore dei social di oggi.
Cominciò a vedersi un Senna più scontroso, più inquieto. Alcuni dicevano con fastidio: “Ma che si lamenta ancora, quello?”.
Eppure Ayrton era un uomo sensibile, generoso, vicino ai poveri del suo Brasile.
Faceva beneficenza, donazioni, ma nessuno lo apprezzava più: “Con tutti i soldi che ha, di che si lamenta?” si diceva.
In pista continuava a dare tutto, ma la tensione lo logorava. Lo sapeva: stava arrivando un giovane, uno capace di impensierirlo anche a parità di auto.
Quel giovane era Michael Schumacher.
Il destino di Imola
Nel 1994, Senna era diverso. Concentrato, ma strano.
Lo sguardo dei giorni di Imola lo tradiva: non erano gli occhi di un genio pronto a vincere, ma quelli di un uomo stanco, triste, scollegato dal mondo.
Quando morì Roland Ratzenberger, in prova, qualcosa si spezzò in lui. Forse voleva dire “basta”.
Per lui, non vincere significava morire.Ma non ebbe tempo.
Quel 1° maggio, la modifica alle sospensioni — voluta da qualcuno per “migliorare” la macchina — cedette. L’auto puntò verso il muro, e il resto è storia.
Il Brasile in lutto, l’elicottero sul circuito, il corpo ancora nel sedile ma lo spirito già in viaggio, a fare le pole tra i pianeti e le scie dei razzi della NASA.
L’eredità
Senna ci insegna che i miti sono legati al proprio destino.
Il mondo è cambiato: oggi i campioni sono circondati da tutor, procuratori, guru e maghi. Tutti pronti a inventare scuse e a cambiare direzione per convenienza.
Ecco perché, invece di criticare, dovremmo ammirare chi ha avuto il coraggio di dire basta, come fece Nico Rosberg nel 2016, quando dopo aver vinto il Mondiale disse “stop, voglio vivere”.
Perché questo è un mondo dove la vita vera, quella autentica, non te la permette nessuno.
E spesso, purtroppo, dura troppo poco.
Alberto Bonvicini