L’apparire del bello (Terza parte)

L’APPARIRE DEL BELLO

(Terza parte)

L’APPARIRE DEL BELLO
Prima parte             (Terza parte)           Seconda parte

 Nella sentenza dell’ Edipo re di Sofocle (“il bello è tale solo se accade nel momento opportuno”), nota Umberto Curi, si stabilisce una stretta connessione  per la quale “l’essere kalòs non è una qualità assoluta, ma è piuttosto la conseguenza  di una relazione con ciò che è kairòs”. Questo significa che non può esserci “un bello in sé, indipendente da ogni circostanza temporale. Affinché si possa parlare di ‘bello’, è necessario che esso intervenga al momento opportuno”. Per far comprendere meglio questa  relazione intrinseca della bellezza con il tempo (giusto) in cui accade, l’autore – che si muove con profonda competenza, come abbiamo già visto, anche nel campo della filologia classica – ci ricorda che “nel mondo greco antico erano in uso quattro designazioni diverse per indicare il tempo.

 

Oltre al tempo come chrònos, come misura del divenire, come successione lineare e irreversibile, si parlava anche del tempo come aiòn , vale a dire come durata, per lo più impiegato per riferirsi all’eternità dei cieli o degli dei; il tempo come eniautòs o “grande anno” , vale a dire un periodo di lunghezza variabile (per lo più, nove anni o multipli), al termine del quale il corso degli avvenimenti ricominciava da capo, e infine il tempo come kairòs , termine difficilmente traducibile in una lingua moderna, poiché con esso si alludeva al “momento buono” , a ciò che si può far coincidere con l’ “attimo immenso”, del quale parlerà Nietzsche”. O anche, potremmo aggiungere, con l’attimo che Faust, nell’omonimo poema drammatico  di Goethe, avrebbe voluto fermare perché bello (Zum Augenblicke durft ich sagen / Verwelle doch, du bist so schon). Ora la valenza qualitativa che rende il kairòs differente  rispetto alle altre determinazioni temporali che si riferiscono invece  alla dimensione quantitativa del tempo, viene testimoniata “più ancora che in testi di carattere filosofico o letterario, nella ricca produzione iconografica antica, e poi anche in quella rinascimentale e barocca. Il kairòs compare infatti come un giovane di bell’aspetto, provvisto di ali o di calzari alati, per lo più seminudo o ignudo, con una caratteristica che lo rende inconfondibile, rispetto ad altre possibili immagini simili. Egli esibisce, infatti, un folto ciuffo di capelli che gli ornano la fronte, mentre la nuca si presenta completamente calva”. Il significato allegorico di questo giovinetto alato è chiaro: “quando lo si incontra, è necessario essere lesti nell’afferrarlo per la chioma fino a che ci fronteggia, perché se ci attardiamo anche di poco, e cerchiamo di afferrarlo dopo che ci ha sorpassato, non abbiamo più la possibilità di farlo”. Questo significa che la bellezza non è una qualità inerente a un oggetto, non è qualcosa che possiamo ritrovare a piacere in un determinato luogo o in una determinata opera scritta o scolpita o dipinta  che  rimane, per così dire,  ad attenderci e che si tratti soltanto di scoprire, dal momento che “ciò che i Greci chiamavano kalòs era considerato indissolubile dal kairòs”.

 
kairòs

Di qui l’impossibilità di isolare il “bello” dal contesto in cui solamente può apparire, e difatti non avrebbe senso parlare di “estetica” con il significato moderno del termine: per l’uomo greco  la bellezza “si esprime sempre nel suo rinvio ad altro: all’integrità della forma, alle qualità morali dell’ andréia , ovvero alle ‘opportunità’ di una variante qualitativa del tempo. Essa allude, quindi, a ciò che non c’è, o almeno non è direttamente visibile, anziché a ciò che può essere oggetto di una visione sensibile diretta”. A questo punto, Curi cita un frammento eracliteo di difficile comprensione, nel quale si afferma che “l’armonia più bella è quella che risulta da cose discordanti”; come è possibile comprendere l’armonia di un ente che “discordando da se stesso con se stesso concordi”? Questa incomprensione avviene perché c’è una differenza tra l’opinione di noi mortali e il sapere degli dei, differenza che “si manifesta anche nel fatto che mentre per la divinità ‘tutte le cose sono belle, buone e giuste’, per gli umani alcune di esse sono giuste, altre ingiuste”. Quello che ci vuole dire Eraclito è che non può esserci armonia vera se non nasce dalla tensione tra opposti, essa “non cancella le opposizioni e i contrasti, perché anzi di essi si alimenta, al punto che  senza le divergenze neppure potrebbe sussistere”.


 D’altra parte, sappiamo che, per il pensatore di Efeso, tutto ciò che avviene nel cosmo deriva da pòlemos; il divenire è un continuo passaggio da un opposto all’altro: dal caldo al freddo, dal secco all’umido, dal giorno alla notte e dalla notte al giorno,  dalla nascita alla morte e dalla morte alla nascita, il tutto compreso nel fuoco cosmico sempre vivente che si accende e si spegne secondo una misura…  Questa eterna guerra  tra gli opposti, però, non è causata dall’ingiustizia, dalla ybris o tracotanza degli umani, come normalmente si pensa; non è la pena da scontare per le ingiustizie commesse, come credeva Anassimandro, è invece la perenne tensione tra gli opposti che dà vita alla superiore armonia della coincidentia oppositorum (concetto che sarà ripreso nel quindicesimo secolo dal teologo tedesco Nicola Cusano). Ma non basta. “Così concepita – prosegue Curi – l’armonia non coincide affatto con ciò che può essere visto. Come esplicitamente afferma l’Efesio, è infatti migliore l’armonia invisibile, rispetto a quella visibile. A rivelarsi bellissimo, nei lacerti eraclitei giunti fino a noi, non è dunque ciò che cade sotto il senso della vista, ed è perciò manifesto. Ma è qualcosa che, all’opposto, resta invisibile, al punto che spesso gli uomini non sono in grado di comprenderlo”.


Nicola Cusano

 Come dire che non tutti possono immaginare o intuire o contemplare una bellezza che è al di là dei sensi. “Come la natura, secondo Eraclito,  ama celarsi, allo stesso modo la bellissima armonia che consegue dall’incontro tra gli opposti è qualcosa che resta aphanès , celato alla vista”. Da questi frammenti (o “lacerti”) eraclitei, Umberto Curi trae alcune conclusioni che ci portano averso i limiti estremi del pensabile: “Ci si potrebbe spingere ad affermare che la bellezza – la vera bellezza – quella che si riferisce all’ harmonie – non soltanto non coincide con alcuna qualità sensibile, ma si definisce piuttosto per differenza, rispetto alla sensibilità”. Quindi: “Bello è ciò che resta invisibile, mentre quanto appartiene ai sensi rappresenta il campo dell’opinabile, di ciò che ad alcuni appare bello e ad altri brutto”. Invisibile alla vista, ma, evidentemente, non all’intelletto di quei  pochi aristòi  in grado di vedere al di là della vista. Molte altre cose sarebbero da scoprire in questo itinerario di Umberto Curi verso la “bellezza in sé”, ma, per il momento, preferisco fermarmi a considerare il cammino fin qui percorso.

  FULVIO SGUERSO 

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