L’apparire del bello ( Seconda parte)

L’APPARIRE DEL BELLO

(Seconda parte)

L’APPARIRE DEL BELLO
                         (Seconda parte)         Prima parte

 L’itinerario filosofico di Umberto Curi verso la definizione di che cosa sia il bello e se esista la bellezza in sé, si sofferma, sempre nel capitolo primo, oltre che sul significato di bello in Omero e in Tucidide – che riferisce la famosa orazione funebre, o epitaffio, pronunciata da Pericle per gli ateniesi caduti per la patria (“Per una tale città, dunque, costoro nobilmente morirono, combattendo perché non volevano che fosse loro strappata, ed è naturale che per essa ognuno di quelli che sopravvivono ami affrontare ogni rischio”), per i quali la bellezza è  tutt’uno con la virtù, il coraggio e il valore sul campo di battaglia  – anche sulle Storie di Erodoto, dove si racconta, tra le altre cose,  che il grande legislatore e poeta Solone, recatosi a Sardi in Lidia,  dopo essersi fermato qualche tempo in Egitto ospite del re  Amasis, fu accolto con tutti gli onori nella reggia del re Creso.


Umberto Curi

  Ma seguiamo l’istruttivo e “pedagogico”  racconto di Erodoto così come è citato e commentato dal filosofo veneto: “Due o tre giorni dopo il suo arrivo, per ordine di Creso stesso, dei servi condussero Solone per le sale del tesoro e gli mostrarono che tutto era splendido e fastoso. Dopo che Solone ebbe visto e osservato le straordinarie ricchezze possedute da Creso, questi gli pose una domanda: ‘Ospite di Atene, poiché è giunta fini a noi grande fama di te, della tua saggezza e dei tuoi viaggi, che cioè  per amore del sapere (philosophéon) tu hai con cura visitato gran parte della terra, ora mi è venuto il desiderio di domandarti se tu hai già visto un uomo, che sia il più felice’. Formulando questo interrogativo, il re sperava segretamente di essere indicato come il più felice fra tutti gli uomini.


Ma Solone, astenendosi da ogni piaggeria, e restando invece aderente alla verità, rispose che si chiamava Tello ed era di Atene. Richiesto da Creso di spiegare i motivi di questa indicazione, il saggio legislatore rispose che erano essenzialmente due le ragioni che lo inducevano a ritenere Tello l’uomo più felice. La prima era che. ‘avendo avuto dei figli belli e buoni (kalòi te kagathòi), di tutti vide venire al mondo i figli e tutti rimanere in vita’. A Tello, dunque, sarebbe stata risparmiata l’esperienza che poteva essere considerata fra tutte la più dolorosa, vale a dire quella di sopravvivere alla morte di un figlio…La seconda si spiegherebbe con il fatto che ‘essendo gli Ateniesi impegnati  in una battaglia a Eleusi contro i loro vicini, egli, accorso sul campo e costretti i nemici alla fuga, morì nel modo più bello (apéthane kàllista)’ “. L’insegnamento di questa  narrazione  erodotea dice che  la vera felicità non va cercata nel possesso di beni materiali, nella vita lussuosa  e gaudente ma nel morire prima dei propri nati e nell’essere uccisi combattendo per la difesa della patria. E’ il tema della “bella morte” in battaglia caro ai poeti (Omero,  Tirteo, Mimnermo…) che sarà poi ripreso – si potrebbe aggiungere –  nell’ età del Romanticismo da autori come Byron, Holderlin, Foscolo, Mazzini…Questa idea della bellezza e della bontà della morte considerata non come una punizione ma come un premio per chi ha ben speso la propria vita “risulta confermato – prosegue Curi – dallo sviluppo ulteriore del racconto erodoteo.  

 

Omero e Tucidide

Difatti, sebbene deluso dalla prima risposta fornita da Solone, nella convinzione di poter almeno ambire al secondo posto, Creso insiste ne voler sapere chi altri, a parte Tello, debba essere annoverato come il più felice della terra. Anche a questo proposito il  saggio legislatore ateniese risponde  attenendosi esclusivamente a ciò che egli ritiene vero: almeno della relativa felicità concessa all’uomo, debbono essere considerati Cleobi e Bitone”. Costoro, sempre secondo la narrazione di Erodoto, erano i due giovani figli di Cidippe, sacerdotessa della dea Hera ad Argo.. Per festeggiare la dea Cidippe doveva essere condotta su un carro fino al tempio; senonché, mancando i buoi, i due giovani si misero all’istante sotto il giogo e tirarono il carro per 45 stadi (8 Km) per portare la madre al santuario della dea.  “Grata e piena di gioia per questa impresa, e orgogliosa per le lodi che sentiva intorno, la madre ‘stando ritta davanti alla statua divina pregò la dea che ai suoi figli Cleobi e Bitone, che l’avevano grandemente onorata, concedesse ciò che un uomo può ottenere di meglio.


Cleobi e Bitone

In seguito a questa preghiera…i due giovani, che si erano addormentati nel santuario stesso, non si rialzarono più, ma in questo modo morirono’. Quale intermezzo del racconto, è lo stesso Solone a indicare l’insegnamento insito nell’esempio citato. A Cleobi e Bitone  è toccata ‘la miglior fine della vita’, perché nel loro caso ‘la divinità fece chiaramente comprendere che è meglio per l’uomo esser morto, piuttosto che godersi la vita’ “. Questo insegnamento richiama quello  che il re Mida, come narra un’antica leggenda, ha estorto al riluttante satiro Sileno (di cui  Umberto Curi tratta in un altro suo libro): la cosa migliore per l’uomo è non essere mai nato. Si può quindi capire come, alla luce di questo insegnamento, la morte non solo perda il suo aspetto spaventoso ma possa anche essere desiderata e apparire bella come quella “conseguita coprendosi di kléos (gloria) sul campo di battaglia”. Un altro e ancor più profondo significato di bello, che conserva  anche oggi  tutto il suo fascino, lo incontriamo in un verso dell’ Edipo re di Sofocle: Pànta gar kairò kalà (tutto ciò che è bello, è tale se accade nel momento opportuno). Ora, però, non vorrei stancare il paziente lettore; ragione per cui tratterò della  relazione tra kairòs e kalòs  nella prossima puntata di questo  mio commento all’ Apparire del bello.

FULVIO SGUERSO 

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