L’apparire del bello (Prima parte)

 
L’APPARIRE DEL BELLO
(Prima parte)

L’APPARIRE DEL BELLO
(Prima parte)

Che cosa è bello? Si potrebbe rispondere a questa domanda con la stessa famosa risposta di sant’Agostino alla domanda “Che cos’è il tempo?”: “Se nessuno me lo chiede, lo so, ma se mi viene chiesto da qualcuno non lo so più”. E infatti, se c’è  un concetto indefinibile per definizione è proprio quello di “bello”. Tanto per cominciare: dove si trova il bello? Nel soggetto che guarda o nell’oggetto guardato? Nel nostro intelletto o nella cosa che ci appare bella? E la bellezza esiste come una realtà fuori di noi o non è che illusione, apparenza, inganno dei nostri sensi turbati? Inoltre, quante volte abbiamo constatato che una cosa bella per noi non lo è ugualmente per gli altri, tanto che molto spesso abbiamo dovuto riconoscere la giustezza della massima latina De gustibus non disputandum  est? E così, quasi senza accorgercene, siamo scivolati dal concetto o idea indefinibile di bello a quella empirica e soggettiva di “gusto”.


Tutti sappiamo che cos’è il gusto per la semplice ragione che non si tratta di una idea platonica iperuranica ma di una sensazione concreta di piacere o, al contrario, di dispiacere. Se ora seguiamo per un momento l’argomentare di Immanuel Kant nella “Analitica del giudizio estetico” che fa parte della sezione prima della sua Critica del Giudizio (1790), potremo capire perché l’idea di ciò che ci appare  bello non è afferrabile attraverso un procedimento logico-scientifico: “Per decidere se una cosa sia bella o meno, noi non poniamo, mediante l’intelletto, la  rappresentazione in rapporto con l’oggetto, in vista della conoscenza; la rapportiamo invece, tramite l’immaginazione (forse connessa con l’intelletto) al soggetto e al suo sentimento di piacere e di dispiacere. Il giudizio di gusto non è pertanto un giudizio di conoscenza; non è quindi logico, ma estetico; intendendo con questo termine ciò il cui principio di determinazione non può essere che soggettivo”. Secondo Kant, dunque, non esiste un “bello in sé”, ma solo un “sentimento soggettivo del bello”: non esiste una regola, un criterio oggettivo per stabilire che cosa è bello e che cosa è brutto, dato che il gusto (o il disgusto), la sensazione di piacere o dispiacere, appartiene al soggetto non all’oggetto; per questo “Non può esservi alcuna regola oggettiva di gusto, capace di determinare tramite concetti che cosa sia il bello. Infatti, ogni giudizio che scaturisca da questa fonte è estetico, trova cioè il proprio principio di determinazione nel sentimento del soggetto e non nel concetto d’un oggetto.


Fatica sprecata  è il cercare un principio del gusto che fornisca il criterio universale del bello mediante concetti determinati, perché ciò che si cerca è impossibile e in se stesso contraddittorio”. Ecco perché il bello non è definibile concettualmente, come non si possono definire concettualmente i sentimenti che si provano innanzi al bello naturale e al bello artistico (“Lingua mortal non dice / quel ch’io sentiva in seno”, canta Leopardi nell’ idillio ‘A Silvia’). Centocinquantadue anni dopo la Critica del Giudizio “In un quaderno redatto a Londra nel 1942, poche settimana prima di morire, Simone Weil annotava: ‘Tutte le volte che si riflette sul bello, si è arrestati da un muro. Tutto ciò che è stato scritto al riguardo è miserabilmente ed evidentemente insufficiente’. Poche righe più avanti, la stessa autrice precisava i motivi che erano alla base di una sentenza così perentoria, vale a dire per quali ragioni ciò che era stato scritto sul bello doveva considerarsi comunque insufficiente: ‘Il bello consiste in una disposizione provvidenziale grazie alla quale la verità e la giustizia, non ancora riconosciute, richiamano in silenzio la nostra attenzione’ “. Questo è l’incipit del bel saggio che  Umberto Curi ha dedicato a L’apparire del bello. Nascita di un’idea , Bollati Boringhieri (2013), e che  può considerarsi come un itinerario euristico che assume il giudizio sul bello della pensatrice e mistica francese quale punto di partenza di una riflessione che tende a  definire la quidditas sfuggente  della bellezza. Si tratta di un percorso irto di problemi e difficoltà derivanti dal fatto che ci troviamo davanti a un muro apparentemente invalicabile.


Tuttavia, avverte Curi: “Un primo passo, ancora insufficiente per lasciarsi definitivamente alle spalle lo sbarramento, ma insieme necessario per avviare almeno il percorso, è indicato dalla stessa Weil, quando sottolinea che ‘non è possibile concepire il bene senza passare per il bello’. Ciò perché ‘quando ogni altra cosa sia stata tacitata, rimane solo un mistero, relativo all’azione svolta da quell’energia che agisce nel particolare. Di questo mistero il bello soltanto permette di farsi un’idea’ “. Ma a chi non volesse né potesse rassegnarsi all’ineffabilità del mistero della bellezza e quindi volesse tentare di andare oltre quel muro sensibile che ci preclude la visione intellettuale del bello in sé, quale via potrà seguire per riuscire almeno ad affacciarsi su questa idea tanto insondabile quanto necessaria alla stessa vita spirituale di ogni essere umano degno di questo nome? “Pur essendo qui espressa in forma aforistica – prosegue Curi – l’intuizione della filosofa può essere assunta come segnalazione della strada lungo la quale incamminarsi. Non pretendere di poter ‘capire’ cosa sia la bellezza isolando questo concetto, ma al contrario ripristinare il contesto a cui esso appartiene e senza il quale rischia di restare inintelligibile, o se non altro esposto a pesanti deformazioni. Di qui l’esigenza di valorizzare la relazione costitutiva del bello col vero, il giusto e il bene, mettendo con ciò almeno provvisoriamente tra parentesi ogni accezione riduttivamente ‘estetica’ “.


Ebbene, incamminandoci su questa strada indicata dalla Weil, scopriamo che il significato del bello comincia a rivelarsi nel momento in cui “si manifesta la sua relazione costitutiva e insopprimibile con l’altro da sé”. A dimostrazione di questo assunto Curi risale, con un mirabile excursus filologico-semantico, a quei testi letterari dell’antica Grecia in cui compare per la prima volta la parola kalòs. Il primo testo su cui si sofferma è un intenso frammento della poetessa Saffo databile intorno alla metà del VII secolo a. C.: “Stelle intorno alla bella luna / di nuovo celano lo splendente aspetto / ogni volta che, piena, risplenda sopra / la terra intera”. In questo frammento, nota Curi, si “manifesta con evidenza la sostanziale equivalenza fra i due aggettivi attribuiti alla luna, e dunque il fatto che essa possa dirsi kàlan – dunque ‘bella’ – non già per un requisito ‘estetico’, quanto piuttosto perché pléthoisa, e cioè ‘piena’. Ciò significa che quella luna può dirsi kàlan, può essere definita ‘bella’, proprio in quanto è ‘piena’, proprio perché essa appare del tutto compiuta”. Questa equivalenza tra bellezza e compiutezza Curi la ritrova in altri due frammenti della poetessa, “là dove la bellezza è posta in relazione con l’ eros – ‘Dicono alcuni che la cosa più bella (kàlliston) sulla nera terra sia una schiera di cavalieri, altri di fanti, altri di navi; io invece ciò che uno ama (éiratai)’ (fr.16) -, ovvero quando il venir meno della bellezza, dovuto all’avanzare della vecchiaia, è rappresentato come un processo di graduale perdita dell’integrità giovanile: ’Ma il corpo giovane, una volta vecchio, ormai ha preso i capelli bianchi invece che scuri…Di questo io mi lamento, ma cosa fare?’ (fr. 58). Da questi frammenti possiamo dedurre, con il professor Curi, che la bellezza, per la poetessa di Lesbo, “coincide con una condizione nella quale non manca nulla”. E qui (considerazione del sottoscritto) incontriamo una concezione del bello che è l’esatto contrario di quella kantiana, in quanto “Si identifica non già con un requisito soggettivo – come tale di principio opinabile e controvertibile – ma con una sorta di costituente oggettivo, come espressione della pienezza, della completezza di ciò a cui si attribuisce la caratteristica della ‘bellezza’. E’ bello ciò che è integro”. A questo punto possiamo dire di aver scoperto la relazione tra la bellezza e l’integrità, tra la bellezza e ciò a cui non manca nulla e che, quindi, è perfetto. Ci rimane da scoprire la relazione del bello con  il buono, con il giusto e con il vero. Ma di questo si dirà nelle prossime puntate.

 FULVIO SGUERSO 

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