L’anomalia italiana

L’anomalia italiana
L’Italia è ormai un corpo estraneo
all’occidente e alla democrazia

L’anomalia italiana
L’Italia è ormai un corpo estraneo all’occidente e alla democrazia

Avere evitato il Conte ter è stato sicuramente un bene e chiunque abbia contribuito a rispedire a casa il ducetto dei dpcm merita tutta la nostra riconoscenza. Questo però non significa che la democrazia ne abbia tratto un vantaggio. Al contrario, la deriva autoritaria si è accentuata e quel che era rimasto di rispetto formale della legalità costituzionale si è dissolto. Ci si può girare intorno fin che si vuole ma dalla caduta del quarto governo Berlusconi è stato un susseguirsi di colpi di mano che hanno finito per alterare profondamente l’assetto istituzionale del Paese fino a farlo diventare un’anomalia non solo in Europa ma rispetto a tutto il mondo politicamente evoluto, dal Giappone all’Australia, dalla Svizzera al Canada. Si cominciò con Monti, pescato non si sa da chi e rappresentante di non si sa che cosa, si proseguì con un parlamento eletto con una legge elettorale dichiarata incostituzionale per dover poi assistere al parto tormentato del governo gialloverde minato fin dall’inizio dallo stravolgimento del dettato costituzionale che impone al capo dello Stato di procedere all’atto puramente formale di nominare i ministri proposti dal presidente del consiglio, non di vagliarli, tantomeno suggerirli e pretenderne la sostituzione, come accadde con Savona.


Mattarella, Draghi Monti e Napolitano

Non insisto sulle autorevoli pressioni sui Cinquestelle quando si trattò di votare per la presidenza della commissione europea e sorvolo sugli autorevoli trabocchetti disseminati sul cammino dei ministri leghisti col fine di sostituirli col Pd e di trasformare Conte da mediatore a despota, sia pure despota da operetta. Ma ora siamo al punto che illustri politologi, accademici di chiara fama, editorialisti dei giornaloni constatano soddisfatti che l’era dei partiti è finita, non contano più nulla, sono tenuti all’oscuro fino all’ultimo delle scelte del palazzo, sono solo ferri vecchi, pezzi da museo mantenuti artificialmente in vita. Quei politologi, editorialisti, accademici figli del sessantotto e dintorni non conoscono l’abc della democrazia, altrimenti non parlerebbero così dei partiti politici. Perché in Italia, se non scriviamo da capo la costituzione, non esiste un’alternativa democratica al partito: ci dicessero quei politologi, quegli accademici e quegli editorialisti da che parte viene la legittimazione del governo se non dai partiti. Dal capo dello Stato? E da chi è legittimato il capo dello Stato? Chi rappresenta? Chi l’ha scelto? Chi l’ha votato?


C’è qualcosa di surreale in queste posizioni che fanno pensare che in Italia manchi completamente il senso della politica, che si sia fermi ai poteri di fatto come nei secoli del più oscuro medio evo senza nemmeno l’alibi di un’investitura divina. Se idealmente tolgo di mezzo i partiti – intendo i partiti in senso lato, le organizzazioni che nelle tornate elettorali hanno raccolto i voti dei cittadini-elettori – quale legittimità ha il potere di Conte o di Draghi o di Mattarella? Ammesso, e non concesso, che ci sia una crisi dei partiti questa sarebbe una crisi della rappresentatività, una crisi della democrazia, una ferita nella sovranità popolare, una crisi dello Stato stesso che farebbe crollare come un castello di carta tutto l’impianto del Paese. Se ci fosse questo sospetto l’unica strada sarebbe quella di un ricorso al voto popolare per eleggere un’assemblea costituente e riformare il sistema che deve garantire l’effettivo esercizio della sovranità popolare. Altrimenti c’è l’arbitrio, l’asservimento, l’uscita dal mondo civile. Leggo i titoli di qualche giornale: abbiamo il governo dei due presidenti. Ma presidenti di che? Nessuno di loro poggia su un voto popolare: come si fa a dire che vanno oltre i partiti o, come è stato detto, bontà loro se i partiti hanno ancora qualche peso. 

Di certo non rimpiango il cicisbeo, la sua presunzione e la sua ignoranza della grammatica istituzionale ma sono consapevole che lui era espressione della forza parlamentare dei Cinquestelle e pertanto, anche se aveva goduto di un aiutino tanto autorevole quanto improprio, almeno la forma della democrazia era salva (la sostanza no). Quando, venuto meno un pezzo della maggioranza, anche formalmente il governo aveva perso la sua legittimazione e il suo presidente aveva dovuto rassegnare le dimissioni le strade da percorrere erano due: o i partiti si mettevano d’accordo per un’ammucchiata, sgradevole quanto si vuole ma legittima, o si prendeva atto che non era possibile una maggioranza e si andava a votare. Non c’era, in democrazia, un’altra possibilità. Ci sarebbe stata nella repubblica delle banane, quale appunto si è dimostrata la nostra. Peggio del fascismo, peggio di qualsiasi dittatura, un ritorno al medio evo o al peggiore assolutismo monarchico. La conclusione della crisi è avvenuta attraverso uno stravolgimento delle regole della democrazia: non sono stati  i partiti a formare un governo di unità nazionale e ad accordarsi sulla persona che avrebbe dovuto guidarlo ma è un signore incaricato dal capo dello Stato che si è assicurato l’appoggio dei partiti col ricatto della fine anticipata della legislatura. I partiti sono ridotti a un paravento per esercitare un potere non legittimato dal voto popolare; non sono i partiti che si accordano su un programma comune ma è quel signore che li tiene insieme distribuendo loro le briciole del potere in modo da soddisfarli tutti mentre il programma lo decide lui e i ministeri che contano li affida ai suoi uomini. Suoi e dell’altro non-eletto che decide del destino del Paese. Non si fa così in una democrazia. Sánchez, Macron, Johnson, la Merkel rappresentano i loro popoli, ne sono incalzati, sono costretti a prendere decisioni nel loro interesse e se perdono il loro consenso il loro potere si svuota: non sono capi, sono strumenti  dell’unico vero capo, il popolo sovrano. È questo il sovranismo che ripugna ai nostri editorialisti, accademici, politologi e al nostro custode della costituzione?


Siamo fuori dalla costituzione, che per altro, lo ripeto, andrebbe riscritta da capo, siamo fuori dalla democrazia, siamo un’anomalia fra i Paesi europei – Russia compresa- e occidentali. La situazione in cui ci siamo trovati deve servire da monito per riformare al più presto gli istituti del capo dello Stato e del capo del governo, quelli sui quali la nostra carta costituzionale mostra le sue maggiori debolezze e che di fatto rendono possibile esautorare completamente la sovranità popolare. Se il capo dello Stato deve avere una funzione meramente simbolica va messo in condizione di non nuocere: se deve avere un peso politico bisognerà che venga eletto dai cittadini e non come accade ora da un parlamento espresso nella tornata elettorale precedente e per di più con una legge elettorale che è stata dichiarata illegittima. E quanto al capo del governo, se è semplicemente un coordinatore fra pari non può essere lui a scegliere i ministri ma debbono essere i partiti che sostengono il governo. Insomma: là dove c’è potere decisionale, quel potere deve poggiare sul consenso elettorale, altrimenti è arbitrio.


La centralità del voto e, di conseguenza la centralità dei partiti che sono i collettori dei voti, non può essere messa in discussione. Ho ascoltato le parole del senatore Sacconi che esprimendo la fiducia al governo a nome di Forza Italia ha detto papale papale che la saggezza del capo dello Stato ha permesso di ovviare alla crisi della politica consegnando il timone a chi per unanime riconoscimento è esperto nell’arte della navigazione. Poi ha cercato di rimediare ricorrendo alla distinzione fra buona e cattiva politica. Mi chiedo a chi tocchi di distinguere fra buona e cattiva politica ma soprattutto mi preme rimarcare che con la politica non si scherza: si può anche usare l’aggettivo politicante come dispregiativo, riconoscendo che vi sono nella politica prodotti di scarto, formazioni parassitarie, fungaglia difficile da eliminare del tutto ma democrazia e politica sono concetti coestesi perché se la democrazia è l’esercizio della sovranità popolare la politica è il modo in cui esso concretamente si realizza; non più arte e scienza del governo come si diceva nel passato ma pratica dell’autogoverno da quando il suffragio universale ha formalmente liquidato le oligarchie e messo al bando le rivolte di piazza e i moti rivoluzionari. Forse l’onorevole forzista non se ne rende conto ma l’alternativa alla politica è il golpe. Ed è una vergogna sentir parlare in un Paese occidentale di governo dei migliori. Non solo perché non esistono migliori e anche se esistessero non esisterebbe un criterio per identificarli ma perché quand’anche esistessero e potessero essere riconosciuti come tali non avrebbero alcun diritto in più rispetto ai peggiori. In democrazia siamo tutti uguali e il popolo è libero di scegliere senza condizionamenti col presupposto che è interesse del popolo che quelle che lo rappresentano e alle quali si affida siano le persone più adatte fra quelle che si dichiarano disponibili. So benissimo che si possono fare scelte sciagurate e che in generale nell’agone politico primeggiano individui mediocri e so anche che i totalitarismi del novecento furono espressione di sentimenti e risentimenti ampiamente diffusi ma so anche che dietro le scelte sciagurate delle maggioranze ci sono sopraffazioni, ingiustizie, privilegi di pochi che hanno spinto quelle maggioranze a forme di reazioni scomposte correndo dietro a rimedi peggiori del male che si voleva eliminare. Il popolo non si muove spinto dal caso o dal capriccio. E alla sovranità popolare non ci sono alternative. Il buon funzionamento delle istituzioni dovrebbe impedire che si creino nella società civile lacerazioni insanabili e sacche di privilegio destabilizzanti; questo è l’antidoto per evitare i contraccolpi demagogici.


Johnson, Merkel e Macron

L’anomalia italiana si palesa anche nel linguaggio. Nelle parole di un leader legittimamente insediato, consapevole di esercitare un potere del quale si conosce l’origine – il voto, in democrazia – non ci sono allusioni, ammiccamenti, silenzi più eloquenti delle parole, che danno la netta impressione di trovarsi davanti ad un cifrario (ogni riferimento al discorso di insediamento di Draghi è voluto) ma c’è franchezza fino alla brutalità, c’è un programma, ci sono idee che si possono o no condividere e soprattutto non ci sono interlocutori occulti, non si parla a nuora perché suocera intenda. Era così con Trump, è stato così con Biden ma anche con Macron, Johnson o la Merkel. Si sa chi sono, cosa rappresentano, dove vogliono arrivare, chi accontenteranno e chi rimarrà deluso. A noi questa trasparenza non tocca. Come non ci tocca un minimo di coerenza e di buona fede. Sento Zingaretti che si rivolge agli italiani caldeggiando l’unità di tutte le forze politiche, la maggioranza più ampia possibile, la rinuncia agli interessi di parte in un momento drammatico per il Paese. È, dice il fratello del commissario Montalbano, quello che nella sua saggezza ci chiede il presidente Mattarella. Bene, mi dico, tempi eccezionali richiedono iniziative eccezionali, facciamo finta che l’incarico a Draghi sia il risultato di una concertazione  fra la vecchia maggioranza e l’opposizione, si mettano da parte per qualche mese i temi divisivi e si veda di uscire dal pantano in cui  il Paese sta sprofondando.


Speranza, Zingaretti, Di Maio

Poi nei giorni successivi comincia a circolare in modo ossessivo il termine “europeismo”, si cerca di strappare a Salvini e alla Lega una professione di fede, si incalza Salvini sulla irreversibilità dell’euro, diventato un’idea platonica, immutabile e eterna, come se nelle cose mondane ce ne fossero di irreversibili, lo si mette con le spalle al muro per fargli sputare che di irreversibile c’è solo la morte e da quel momento Salvini diventa una spada di Damocle sull’euro, sull’Europa e s’intende su funzionamento della santa alleanza per salvare l’Italia. Non solo: doveva essere il sostegno di tutti intorno ad un progetto salvifico, una union sacrée e lo stesso Zingaretti viene fuori con l’intergruppo Pd, Leu, Cinquestelle, coordinato da Conte (?!), per fronteggiare la destra salviniana. C’è veramente da chiedersi con che razza di cialtroni abbiamo a che fare. Perché il peggiore machiavellismo un minimo di dignità lo deve mantenere e se è vero, com’è vero, che la morale comune non si applica ai giochi di partito anche quei giochi delle regole le devono rispettare: c’è un’etica anche nella politica.

      Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione  

  Il nuovo libro di Pier Franco Lisorini  FRA SCEPSI E MATHESIS

 


Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.