LA ZATTERA
Gli Stati Uniti, consacrati a super-potenza in virtù del loro peso determinante nel conseguire la vittoria nelle due Guerre Mondiali e, per riflesso, dell’implosione dell’URSS e del suo modello statalista nel 1989, ebbero buon gioco nell’imporre i loro paradigmi nella governance del mondo, sintetizzati nel termine “Globalizzazione”, con ciò intendendo la caduta di ogni restrizione alla circolazione internazionale di capitali, merci, persone.
La strada era già stata spianata in precedenza:
- a Bretton Woods, nel 1944, legando il valore del dollaro a quello dell’oro, finché l’eccessiva stampa di moneta per finanziare il loro abbraccio tentacolare sul mondo intero, nonché i costi di guerre, prima in Corea e poi in Vietnam, resero insostenibile l’equiparazione (pegging) dollaro = oro, azzoppata dalla puntuale conversione in tal senso da parte di nazioni come la Francia di De Gaulle, e non solo, che assottigliavano le riserve auree di Fort Knox;
- con la dichiarazione del presidente Richard Nixon il 15 agosto 1971 di insolvenza del dollaro, abrogando (unpegging) il precedente gold standard;
- con l’accordo del 1974 con l’Arabia Saudita (e il cartello OPEC) secondo cui il pagamento del petrolio (esteso poi a tutti gli scambi commerciali) doveva avvenire esclusivamente in dollari (cosiddetti petrodollari), imponendo, per estensione, che ogni transazione internazionale avvenisse in questa divisa, erigendola a depositaria di valore e quindi a valuta di riserva da parte delle Banche Centrali mondiali.
La naturale conseguenza fu lo scadimento dell’oro stesso a “relitto barbarico”, come lo si definì, e la promozione del dollaro, in quanto garantito dalla solidità economica e finanziaria degli USA; i quali si dettero a stampare moneta senza più limiti, vista la sua indiscussa -e sia pur coatta- accettazione in ogni angolo del mondo. Coatta, in quanto fatta valere attraverso corruzione, intimidazioni, colpi di Stato, guerre.
Dopo il collasso dell’URSS nel 1989, la sua disgregazione centrifuga e la sua cannibalizzazione da parte di “oligarchi” che subentrarono nelle varie società statali di un tempo, l’Oriente non presentava più minacce né ostacoli all’espandersi del modello capitalistico neoliberale americano anche in territori ex comunisti; inclusa, naturalmente l’intera Europa dell’Est, che veniva aggregandosi all’UE in progressiva espansione.
In parallelo, le Borse occidentali vennero declassando le fabbriche, in una parossistica finanziarizzazione, deindustrializzazione e delocalizzazione delle unità produttive in Paesi a bassi costi della manodopera e dispregio per l’ambiente, in particolare in Cina, che assurse al rango di “fabbrica del mondo”. Il via a questo nuovo modello di primazia finanziaria lo dettero, naturalmente, gli USA, seguiti con entusiasmo dai Paesi europei, nel frattempo dotatisi di una Banca Centrale, la BCE, sul calco della Federal Reserve (Fed) americana.
Gli USA mantennero in patria le fabbriche di armi e l’alta tecnologia, lasciando che altri, oltre oceani, provvedessero alla fabbricazione di merci meno sofisticate, sia in proprio che tramite fabbriche domestiche ivi delocalizzate.
In questo processo, di dimensioni ciclopiche, si venne a determinare l’altrettanto ciclopica formazione di un debito verso i Paesi fornitori, che investivano i dollari guadagnati in Buoni del Tesoro americani, venendo così a dipendere dai tassi di interesse sugli stessi stabiliti dalla Fed, accrescendo di pari passo la montagna del debito americano. Un percorso seguito, fatte le debite proporzioni, anche dai Paesi europei. Del resto, era prevedibile che l’abolizione dei dazi protettivi sulle massicce importazioni avrebbe causato nei Paesi acquirenti calo della produzione locale e conseguente disoccupazione, che andava ad aggiungersi a quella provocata dalla diffusione capillare di meccanizzazione, robotizzazione, computerizzazione.
In un contesto simile, e restringendo l’attenzione al nostro Paese, a farne le spese erano le funzioni di primaria pertinenza di uno Stato “normale”, lasciato andare alla deriva onde spingere all’uso di strutture private, spesso concorrenziali come qualità, ma proibitive per i più in ragione dei loro costi, penalizzando le fasce già colpite dai vari processi sopra descritti, in primis disoccupati, precari, piccole partite Iva, queste ultime perseguitate da un fisco, implacabile coi deboli e tollerante coi forti, in grado di evadere la sua morsa mediante la costituzione delle sedi legali in Paesi più compiacenti, all’interno della stessa UE (Irlanda in testa) o addirittura in esotici paradisi fiscali. Un trucco abusato non solo dalle evanescenti società operanti nel digitale, ma anche da altre un tempo percepite come poggianti su basi concrete: vedi ad es. Fiat, poi FCA, poi Stellantis; o Pirelli.
La protervia dell’Occidente, in massimo grado degli USA (e aggiungerei della Francia, nell’ambito dei suoi Paesi ex coloniali) nell’abusare della loro superiorità finanziaria, nella quale si era venuta assommando ogni altra forma di potere, garantita in prima battuta dalla comminazione di sanzioni economiche e monetarie e, in caso di loro insufficienza, da un apparato militare dispiegato in ogni angolo del globo e pronto a scattare nei casi di insubordinazione al “Washington consensus”, quella protervia dicevo, covava in sé i semi dell’odio e del desiderio di rivalsa.
Sentimenti rimasti molto sottotono in Europa, che viveva -e vive- di buon grado il suo ruolo di semi-protettorato americano, ma venuti gradualmente alla luce nel continente asiatico, massime in Russia, Cina e India, le cui millenarie culture non avevano ceduto, come in Europa, alle chimere delle sedicenti democrazie liberali dell’Occidente. L’anno in cui ciò che era sino allora sembrato un sistema granitico, non scalfibile da eventuali rovesci, fu il 2008, che minacciò di duplicare la Grande Depressione del 1929. Se l’apparato finanziario, che aveva le sue show room a New York e Londra, si era dimostrato un castello di carta; se le varie guerre monetarie sotto mentite spoglie (Iraq e Libia); se i colpi di Stato e le pseudo-rivoluzioni fomentate dalla CIA (vedi Ucraina); se le innumerevoli sanzioni e confische comminate ai Paesi meno docili ai voleri di Washington venivano osservate da altri Paesi come possibili scenari in cui essi stessi avrebbero potuto finire come futuri bersagli, allora conveniva correre ai ripari preventivi. Come?Replicando, in una nuova edizione, e sulle prime in sordina, la sfida di De Gaulle: convertire i dollari, sino allora zelantemente tramutati in Treasuries americani, in oro o in altre valute, organizzando gli scambi commerciali senza la soffocante presenza del dollaro, ritirando gradualmente i propri fondi sovrani dalle varie piazze occidentali, per non incorrere in sgradevoli situazioni come quella occorsa alla Russia, privata da un giorno all’altro della disponibilità dei propri asset in banche europee. Furono queste le principali ragioni del successo dei BRICS, organizzazione monetaria sorta ad opera di Brasile, Russia, Cina, Sud Africa, ed oggi in fase di estremo richiamo ed adesione di un numero crescente di nazioni, tra i quali Arabia Saudita e addirittura un membro Nato, come la Turchia, che guardano all’America e ai suoi alleati come potenziali, se non attuali, nemici.
Il graduale riflusso dei dollari delle nazioni impropriamente chiamate del Sud del Mondo, incautamente investiti nel dollaro (e in subordine nell’euro), sta privando gli USA della sua funzione primaria, che sta alla base della sua prosperità: quella di zecca globale, che li ha visti diventare i parassiti dell’umanità, prelevando merci e servizi pagati con foglietti di carta stampabili (o digitabili) senza nessuno sforzo o investimento. In una mia conferenza del 2006 li avevo definiti i “pensionati del mondo”.
I BRICS sono il prodromo di una generale inversione di tendenza, sia da parte dei Paesi fornitori di materie prime, come la Russia, o di merci di scarso valore aggiunto come la Cina, ma anche di ex colonie africane, ultime quelle francesi; tanto che l’Africa sta vedendo una sostituzione dei vecchi colonialisti con l’arrivo di Russia e Cina, nell’inedita veste di costruttori di infrastrutture utili ai Paesi, anziché di erogatori di prestiti iugulanti, come quelli sin qui forniti da FMI e Banca Mondiale.
Mentre la Nato non fa che attivarsi colmando l’Ucraina di armi sempre più letali, manifestando la chiara opinione di opporsi con la guerra totale al mondo altro da quello occidentale, l’unica voce dissonante in Europa è quella di Viktor Orbàn, in un’ottica di convivenza con quell’altro mondo anziché provocarlo, sanzionarlo e fronteggiarlo armi in pugno in un’ottica di scontro totale che credevamo sepolta con l’ultima guerra. Ormai le varie sessioni dei governanti europei suonano come bollettini di guerra, che echeggiano i vibranti discorsi di Hitler prima dell’affondo del 1939.
Circa poi il salto qualitativo delle tecnologie russe e cinesi, è ormai sotto gli occhi di tutti. E americani ed europei, che si sono dati negli anni della globalizzazione a delocalizzare le produzioni, oggi che stanno optando per una re-industrializzazione, sulla scorta dei disastri della parcellizzazione del lavoro in giro per il pianeta, si stanno rendendo conto che non avevano esportato solo le fabbriche, ma anche le competenze umane, il know how, ormai difficili da reperire ex novo sul suolo di partenza dopo decenni di latitanza.
Il risveglio, come da un incubo, col ripristino di dazi spesso esorbitanti (dal 25% al 100% i dazi USA sulle auto elettriche cinesi) e la crescente fuga del “Sud del mondo” dal dollaro (dedollarization), il rientro dei capitali stranieri, non più disponibili a pagare l’alto tenore di vita di parte degli americani, con conseguente crescita del debito pubblico USA, costretto a tenere alti i tassi dei Treasuries per renderli più appetibili, sta creando gradualmente il deserto di investitori della macchina finanziaria e bellica americana, che sempre più deve dipendere dai capitali europei.
Riporto, per inciso, un’affermazione di un grande economista, Accademico di Francia, tuttora attuale, non più tanto in Europa, quando nei blocchi monetari in via di formazione
In altra sede approfondirò il discorso dei megalitici fondi di investimento americani, che considerano ormai l’Europa, Italia in testa, come loro principale terreno di caccia, con partecipazioni determinanti in quello che è rimasto delle società pubbliche da scarnificare, nel senso di subordinare al profitto a breve (i dividendi) la loro originaria funzione sociale.
L’Europa infatti è rimasta l’unica area del pianeta ancora disposta a concedere credito senza remore alla moneta USA, divenendone di fatto l’ultimo baluardo coloniale: la sua zattera.
Lo si è visto platealmente alla luce della guerra in Ucraina. L’Europa s’è dimostrata vassallo degli interessi americani al di là di ogni ragionevolezza. Poco importa chi, tra USA ed Europa, abbia compiuto lo harakiri della recisione dei cordoni ombelicali North Stream 1 e 2, che ci legava alla Russia. Il risultato è stato il passaggio esiziale da una materia prima fondamentale come il gas naturale da un prezzo conveniente al suo quadruplo, in una nuova forma di colonialismo terminale del Vecchio Continente per tenere a galla gli Stati Uniti nella loro sfida epocale alle nuove potenze nascenti, in primis Cina, Russia e India, nonché Arabia Saudita, in passato scudo del valore del dollaro, ma oggi, col primo ministro Salman sempre più insofferente degli accordi lasciatigli in eredità dai suoi predecessori. Tant’è vero che il G7, insensibile alle pressioni anglo-americane, ha deciso di fermarsi al sequestro degli interessi generati dai $ 300 miliardi russi depositati all’estero: ha prevalso cioè il timore, per non dire il terrore, di una fuga generalizzata dai depositi esteri in banche occidentali, con un probabile shock monetario di dimensioni planetarie.
Disamore verso il dollaro, che però implica anche disamore per l’euro, suo vassallo, con conseguenze analoghe per noi europei.
Non voglio abusare dello spazio e della pazienza di chi mi legge e mi fermo qui, salvo ampliare l’argomento in puntate future.
P.S.
L’Europa è in mano a folli criminali, che assecondano gli USA, i quali traggono solo vantaggi economici dalla guerra in Ucraina, noi solo missili puntati su nostri obiettivi strategici, Italia in testa, viste le numerose basi USA sul nostro suolo. Gli USA nelle 2 guerre mondiali del ‘900 hanno sempre combattuto su suolo estraneo, l’Europa. Ci vogliono riprovare. Mentre le sinistre, in un caldo abbraccio atlantista con la nostra pseuo-destra, sanno solo fare cortei anti-fascisti. Ai governanti europei non gliene fotte niente di cosa pensano gli europei, che nelle ultime votazioni hanno bocciato proprio i più bellicisti. Ai vertici dell’UE e di tutte le nazioni, escluse Ungheria e Slovacchia, si sono blindati nelle stanze dei bottoni e marciano spediti verso una guerra devastante soprattutto per noi europei. Ma si sono bevuti il cervello?
La Russia: “Le capitali europee potenziali obiettivi per il dispiegamento dei missili Usa”
Marco Giacinto Pellifroni 14 luglio2024