La zattera della paura

LA ZATTERA DELLA PAURA

LA ZATTERA DELLA MEDUSA

 Quando il  geniale  ventisettenne Jean-Louis André Théodore Géricault (Rouen 1791 – Parigi 1824) raccoglieva e disegnava  lacerti anatomici  di cadaveri che infermieri compiacenti  dell’ospedale Beaujon, (nei pressi del quale aveva trasferito il suo atelier onde poter studiare dal vero gli effetti della malattia, la sofferenza e l’agonia dei moribondi) come “materiale” preparatorio del grande quadro a olio  che verrà intitolato prima genericamente Scena di naufragio e poi La zattera della Medusa (Le Radeau de la Méduse 1818 – 1819), non immaginava che quest’opera sarebbe stata anche interpretata dal Michelet quale tragica allegoria della Francia alla deriva nella temperie oppressiva della Restaurazione postnapoleonica, e men che meno del naufragio dell’Europa e del mondo “nella liquida tomba mediterranea insieme a decine di migliaia di disperati”  dal pittore torinese Ugo Nespolo.


Jean-Louis André Théodore Géricault

Géricault fu molto impressionato dal racconto che di quel naufragio fecero due sopravvissuti, il chirurgo Henri Savigny e dell’ingegnere e geografo Alexandre Corrèard: la fregata Méduse partita da Rochefort con altri tre navigli – la Loire, il brigantino Argus e la corvetta Echo – nel giugno del 1816 diretta al porto di Saint Louis, in Senegal, si arenò, per l’imperizia del capitano  Duroy de Chaumareyes, imposto dal re Luigi XVIII,  su un banco di sabbia (niente di nuovo sotto il sole) al largo della costa africana. I naufraghi cominciarono il loro viaggio verso terra sulle sei scialuppe della Méduse, ma centoquarantasette persone furono dirottate su una zattera lunga venti metri e larga sette. All’inizio fu trainata dalle scialuppe ma dopo poche  miglia la cima si spezzò e la zattera fu lasciata andare alla deriva. Per dodici giorni quei naufraghi furono in balia delle onde e della disperata lotta per la sopravvivenza: la prima notte morirono venti persone, al non giorno i superstiti si diedero al cannibalismo. Il tredicesimo giorno, 17 luglio, dopo che la maggior parte era morta di fame e di sete o in mare, i quindici sopravvissuti furono raccolti dal brigantino Argus, ma cinque di loro morirono la notte seguente. Come ha osservato lo scrittore inglese Jonathan Miles, nell’articolo Death and the masterpiece, in The Times, 24 marzo 2007, sulla traccia delle testimonianze di Savigny e Corréard: “La zattera condusse i sopravvissuti alle frontiere dell’esperienza umana. Impazziti, assetati e affamati, scannarono gli ammutinati, mangiarono i loro compagni morti e uccisero i più deboli”. L’umanità nuda e disperata costretta in quel piccolo spazio  circondato dall’oceano in tempesta  era ben intonata alla  visione tragica che Géricault aveva dell’arte e della vita. Il dipinto presenta una doppia struttura piramidale  i cui vertici corrispondono alla  sommità dell’albero con la vela e al drappo sventolato come richiamo dal personaggio di colore; in primo piano vediamo un groviglio di moribondi e di morti, in secondo piano i sopravvissuti che si protendono verso la speranza di salvezza rappresentata dalla nave lontana.


Scena di naufragio e poi La zattera della Medusa

La tragicità di quella situazione è bene espressa dai contrasti di ombra e di livida luce che illumina una scena che molti, tra cui il purista accademico e classicheggiante Ingres, si rifiutavano persino di guardare. E difatti la pittura di Gèricault è cruda, realistica, senza bellurie che magari appagano l’occhio ma non toccano le corde profonde della com-passione e della pietà. La rappresentazione di questo naufragio è stata anche letta come  denuncia di un sistema di potere basato sulla fedeltà  e sul clientelismo piuttosto che sul merito. Altri tempi, vero? Certo è che Le Radeau è un esempio perfetto di opera d’arte che non è solo un’opera d’arte, ma è anche presentimento e anticipazione di qualcosa che verrà: come non vedere che quei naufraghi  di allora ci parlano dei naufraghi di oggi e dei tanti disperati che fuggono dalla guerra e dalla miseria’? Certo possiamo anche non guardare quei corpi  morenti e quei cadaveri nudi, ma non è che se non li guardiano  spariscono; non è alzando muri o steccati esterni o interni che possiamo fermare l’”invasione” dei disperati e dei dannati della terra. Ma il capolavoro di Géricault non è un grido disparato, è anzitutto un’opera che arricchisce la nostra umanità, perché non è vero che quei corpi sono brutti, se li si guarda bene si vedrà con quale amore per la verità e per l’arte anche classica sono stati disegnati e dipinti. La vera, la grande arte non è quella che ci fa sognare ma, caso mai, quella che ci apre gli occhi chiusi dall’abitudine e dall’assuefazione al pensare corrente, che ci distoglie dai luoghi comuni, che ci fa vedere quello che normalmente non vediamo. Géricault, come Caravaggio, come Goya, come J. L. David, come Van Gogh, come Munch, ci apre gli occhi sulla miseria e sulla grandezza dell’uomo; non ci consola ma ci insegna a guardare bene in faccia il dolore, la follia  e la morte.

 FULVIO SGUERSO

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