La violenza sulle donne. Quando fa…

La violenza sulle donne
Quando fa comodo fare d’ogni erba un fascio

La violenza sulle donne
Quando fa comodo fare d’ogni erba un fascio

 Qualche giorno fa si è celebrata nei quattro continenti la giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Un’occasione ghiotta per la presidente della Camera e le irose esponenti del Pd, che la sorte beffarda ha voluto funestare con la notizia di un marito accoppato dalla moglie. Ma il tema è serio e proprio per questo mi infastidisce che venga risolto nella retorica delle giornate mondiali (ce n’è una per ogni giorno dell’anno, compresi i bisestili). Sgravarsi la coscienza con le chiacchiere è troppo comodo e fa anche comodo fare d’ogni erba un fascio, confondere fenomeni diversi che richiedono approcci diversi e interventi differenti. Intanto va precisato che la violenza sulle donne nei Paesi del cosiddetto terzo mondo e, in particolare, in India e in buona parte dell’Africa, è un fenomeno culturale mentre in Occidente è un fenomeno criminale. In secondo luogo la violenza all’interno della famiglia o della coppia, che è quella statisticamente più rilevante, non è riconducibile alla violenza di strada o ad opera di estranei, che è quella socialmente più avvertita. Preoccuparsi di queste distinzioni non è pedanteria ma segna la linea di demarcazione fra l’ipocrisia dei tromboni e la volontà di affrontare seriamente i problemi.


 Che ci siano Paesi e culture nei quali la donna è considerata un oggetto di piacere, instrumentum voluptatis, che i benestanti possono comprare e quelli che non se lo possono permettere sono autorizzati a predare è un fatto. Ed è un fatto che ci sono Paesi e culture nei quali la vita istintuale si esprime in modi più diretti e senza i controlli interiori e sociali propri della nostra cultura. Le anime belle che si indignano quando si rimarca la correlazione fra stupri e africani e strillano che stuprano anche gli italiani non solo trascurano la circostanza che con i dati grezzi l’8% della popolazione straniera commette il 37% dei reati sessuali, ed è intollerabile, ma se ci si prende la briga di scomporre i dati, di isolare le violenze compiute da sconosciuti che aggrediscono per strada o nel corso di una rapina in casa e si tiene conto della nazionalità e non della cittadinanza (se venisse approvato lo ius soli tutti gli stupri risulterebbero commessi da italiani) risulta che anche in valori assoluti e non solo in percentuale gli africani stuprano molto più degli italiani. Le anime belle  fingono anche di non sapere che l’italiano che stupra per strada – quindi non chi commette violenza all’interno della famiglia o della coppia –, quando non è un rom è nella generalità dei casi uno psicopatico mentre l’africano, come le belve di Rimini, è perfettamente “normale”, di una normalità spaventosa, perfettamente integrato nella sua famiglia e nella sua comunità: un soggetto normale che si sente due volte predatore: primo perché maschio, secondo perché si trova in un terreno di caccia. Che poi sia spinto dalle pulsioni giovanili, nella sua cultura di origine rilassata è un attenuante, nella nostra cultura repressiva è un aggravante. E poiché non è compito nostro intervenire su stili di vita, atteggiamenti e comportamenti in contrasto con la nostra civiltà ma è nostro interesse e preciso dovere dei nostri governanti impedire che quegli stili di vita, atteggiamenti e comportamenti vengano replicati a casa nostra, occorre che pene esemplari si accompagnino ad una dura opera di prevenzione attraverso un controllo capillare su territori e comunità a rischio. Un controllo che va ovviamente esteso ai nostri connazionali identificati come possibili soggetti criminali per turbe che interessano la sfera sessuale e la vita di relazione. Sperare che le istituzioni, cadute nelle mani di incapaci intrisi di pregiudizi ideologici e di retorica, tanto inclini alla chiacchiera quanto restii alle azioni, tanto intimamente indifferenti quanto pronti alla commozione pubblica, si muovano anche di un solo passo in questa direzione è pura illusione; basta dire che quando aggressioni e stupri sono commessi da stranieri, ed è così nella quasi totalità dei casi, cercano di impedire che si sappia


 Ma la violenza sulle donne, al di là dello stupro, è una faccenda che riguarda soprattutto la famiglia, la coppia, l’ambito delle frequentazioni attuali o passate. E anche in questo caso occorre fare ulteriori distinzioni perché la violenza perpetrata dal marito tradito è spesso il retaggio di un malinteso senso dell’onore fondato sul giudizio della comunità. Fino a ad un’epoca non lontana l’uxoricidio motivato dall’adulterio era rubricato come delitto d’onore e l’assassino poteva farla franca: chi non ricorda il celebre film di Pietro Germi “Divorzio all’italiana”? Almeno questa vergogna ce la siamo lasciata alle spalle anche se c’è sempre il rischio di qualche epigono. Ma, ora che il giudizio sociale è sostanzialmente venuto meno, pesa di più l’autostima, la ferita narcisistica, l’umiliazione, e gli effetti non sono meno devastanti, con la violenza che è più rabbiosa e tende a sfociare in omicidio-suicidio. Alla medesima categoria criminale rimandano gli infanticidi compiuti sia dalle madri che dai padri, quando la frustrazione, il desiderio di vendetta, la volontà di far soffrire si scaricano sui figli. E in questi casi fissare il focus sulla violenza contro le donne e il femminicidio non porta da nessuna parte perché il problema è la patologia della famiglia, resa esplosiva dall’isolamento, dalla fragilità emotiva dei suoi membri, dall’assenza di supporti materiali e psicologici. La nuclearizzazione, l’angustia degli spazi, il logorarsi fisiologico della comunicazione che tende a diventare rumore, l’insoddisfazione personale e il progressivo restringersi degli orizzonti di vita sono fattori di rischio difficili da neutralizzare e in gran parte indipendenti dalle variabili socio-culturali ed economiche.


Esiste un modo per identificare la famiglia patologica e prevenire il verificarsi di tragedie? Mi sento di rispondere con un secco no. Si può fare molto per prevenire o contenere il disagio sociale agendo sulla professionalità degli assistenti sociali, dotando di mezzi e formando apposite sezioni di polizia, raccogliendo le segnalazioni di vicini di casa o di familiari, facendo o facendo meglio tutto quello che oggi non viene fatto o viene fatto male. Ma la famiglia patologica non rivela all’esterno la sua patologia; non necessariamente litigiosa, spesso esteriormente inappuntabile, tende a nascondere e reprimere la propria interna conflittualità. E anche dove esistono supporti sociali, gruppi d’incontro, modi per scaricare le tensioni, professionisti specializzati nel promuovere la resilienza, quelli che ne avrebbero più bisogno non vi si rivolgono preferendo piuttosto ricorrere agli psicofarmaci. Queste situazioni rimandano a conflitti di natura globale, diciamo pure esistenziale, hanno una base più cognitiva che affettiva al contrario di quelle che caratterizzano la patologia della coppia o, più in generale, degli scambi relazionali a colorito affettivo e sessuale. Che sono, a mio parere, quelle che meritano più attenzione anche perché offrono concrete possibilità di prevenzione e di intervento sociale. Esse hanno all’origine una alterazione del sentimento di attaccamento che si manifesta nella forma ambivalente della dipendenza e del dominio, colpisce in egual misura uomini e donne e ha il suo risvolto nelle forme di gelosia ossessiva e nei deliri paranoidi di tradimento. La nostra cultura, la tradizione letteraria, gli stereotipi socialmente accettati dell’eros, enfatizzano l’amore e connotano positivamente la passione anche quando compromette la distanza fra sé e l’altro. In realtà quando si verifica ne risulta una relazione malata, di fusione, con conseguente perdita dello scambio sul quale deve fondarsi la relazione di coppia, o di possesso, di resa in schiavitù, psicologica ma anche fisica. È comunque il rifiuto di riconoscere l’altro come tale, con la sua autonomia e la sua identità e insieme la pretesa di fissare il momento di fusione della relazione e di perpetuarlo. L’abbandono o il tradimento, vero o anche solo presunto, diventano eventi catastrofici, causano una totale destrutturazione, un crollo psicotico.


Come prevenire? Lavorare sui giovani, sulla sicurezza, gli interessi, la gestione delle emozioni. Lasciare che i bambini si sfoghino liberamente è un’opzione pedagogica stupida e devastante. Il bambino che urla, rosso per l’eccitazione, incapace di rispondere al richiamo dell’adulto, è destinato a rimanere vittima dei propri impulsi. L’educazione emotiva parte da lontano, implica ordine, disciplina – certamente non coercizione, che sortisce l’effetto contrario –, un ambiente sereno e rilassato, competizione senza rissa, rispetto delle regole, accettazione della sconfitta, lealtà e rispetto reciproci. E quando la pressione ormonale comincia a farsi sentire si devono fare i conti con le nostre convenzioni sociali e le restrizioni che esse impongono: non siamo in una tribù africana dovei giochi erotici fra bambini e adolescenti sono istituzionalizzati e la repressione è ridotta al minimo. La nostra cultura secondo i punti di vista è repressiva o liberatoria. Repressiva perché ha a proprio fondamento il controllo delle pulsioni, che d’altronde ci rende liberi di agire guidati dalla razionalità. E questo non riguarda la fenomenologia dei generi ma l’eros e la base pulsionale delle nostre azioni, del nostro essere umani. L’essere maschio o femmina attiene alle caratteristiche dell’individuo, come il colore della pelle o la conformazione del cranio. L’umanità consta di individui o, meglio, di persone, non di uomini e donne o di brachicefali e dolicocefali o di bianchi e neri. Le femministe rendono alla donna un pessimo servizio così come la rivendicazione dei diritti della donna oscura il principio basilare della dignità e dei diritti della persona. Il fatto di essere maschio o femmina non comporta alcuna discriminazione, almeno nella nostra cultura, né alcun privilegio o qualche speciale diritto. Che le caratteristiche fisiche dell’essere donna comportino delle limitazioni riguardo a certe attività non lo considererei una discriminazione più di quanto lo sia la circostanza che per un maschio di bassa statura il canestro nel basket è posto troppo in alto. Riconoscere e accettare le differenze, compreso il fatto che esse orientano verso percorsi diversi, non ha niente a che fare con la discriminazione. Storicamente l’educazione dei figli e la cura della casa hanno tenuto lontano le madri, e, per generalizzazione, le donne, dal mondo del lavoro e dalla politica. Oggi la diminuita natalità e le mutate condizioni ambientali e socio economiche hanno allentato i vincoli che trattenevano le donne all’interno della famiglia e per molte di loro non si è trattato di un progresso. Sta comunque il fatto che nell’accesso agli uffici pubblici, ai concorsi statali e privati, alle professioni ci sono sì in Italia corsie privilegiate, favoritismi, clientele, nepotismo ma sicuramente non c’è alcuna forma di discriminazione basata sul genere. Chi sostiene il contrario vuol distogliere l’attenzione e coprire qualche altra magagna. Esiste però un problema nelle relazioni sentimentali che in parte eredita il pregiudizio della donna preda e del maschio cacciatore ma origina soprattutto dalla fragilità affettiva e dalla mancanza di controllo emotivo, dalla scarsa stima di sé e dalla dipendenza dal gruppo. Statisticamente sono più donne le vittime di questo problema, che di per sé riguarda però i maschi come le femmine. Un’insistenza sconsiderata sull’importanza della socializzazione, sulla centralità del gruppo, sui temi dell’integrazione e dell’accettazione ha contribuito a indebolire il carattere dei giovani di entrambi i sessi, a renderli dipendenti, conformisti, omologati anche nella trasgressione. Se si riuscisse a invertire questa tendenza, a valorizzare le differenze, l’individualità, l’autonomia, a promuovere il gusto della lettura, della riflessione personale, il piacere di stare soli con se stessi, avremmo giovani psicologicamente più attrezzati, in grado di stabilire relazioni simmetriche e capaci di interagire con gli altri senza privarsi dei propri spazi privati. Maggiori sono le risorse di cui una persona dispone, minori sono le probabilità che si attacchi ad un’altra persona facendo dipendere da lei la propria sopravvivenza e, quel che conta, diminuiscono anche le sindromi di abbandono, i rischi di autolesionismo e di aggressività e il pericolo per i soggetti fisicamente più deboli.


È un quadro, insomma, molto variegato e complesso. Per affrontarlo occorrono sensibilità, competenza, spregiudicatezza e una buona dose di realismo. Meno se ne occupa la politica meglio è. Quando lo fa, i politici, dico i politici ma mi riferisco a questa nostra sinistra ipocrita e moralista, cercano goffamente di portare acqua al mulino della loro parte, di accattivarsi la simpatia dell’opinione pubblica esibendo un’improbabile commozione e un reale bisogno di colpevoli, da trovare possibilmente fra gli avversari, che sono sempre e comunque espressione del Male. Tutta la casistica della violenza riconducibile al genere viene ricondotta alla categoria inconsistente del maschilismo e, di conseguenza e nemmeno tanto velatamente, al fascismo, alla destra violenta, xenofoba, omofoba e femminicida. Un delirio.

Post scriptum

Come si fa a dicotomizzare l’umanità fra maschi e femmine e sostenere nello stesso tempo la pluralità dei generi? E com’è possibile confondere il genere con le inclinazioni sessuali? Misteri del pensiero unico.

E infine: ho sentito sindacalisti, politici, osservatori a vario titolo e psicologi televisivi ricondurre il molestatore sessuale (stalker) e la persecuzione sul lavoro (mobbing) alla violenza contro le donne. Sul primo punto non auguro a nessun maschietto di essere oggetto involontario delle attenzioni di una donna: ti può rovinare la vita. Sul secondo: a mano a mano che le donne assurgono a posizioni di comando (nella scuola quasi la totalità dei dirigenti sono donne e il loro numero aumenta costantemente negli uffici e negli ospedali) aumenta il numero delle responsabili di mobbing e bossing. Nelle scuole i persecutori delle ragazze sono altre ragazze. Il genere non c’entra: la miseria umana, la crudeltà, la prepotenza non conoscono differenze di sesso.

   Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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