La società ipercognitiva divora se stessa
Andrai in rovina
per le tue virtù
Friedrich Nietzsche
A chi ama lo studio succede spesso di divagare dall’interesse principale di una lettura per la curiosità intellettuale di approfondire certi termini o nomi propri incontrati nel testo e finire così di anello in anello al cospetto di argomenti nei quali mai avrebbe immaginato di approdare.
Ero partito dal titolo e sottotitolo di un libro del 2019 di Maurizio Lazzarato che avevano catturato la mia attenzione: “Il capitalismo odia tutti – Fascismo o rivoluzione?”.

Secondo Agamben la Grande Trasformazione che stiamo subendo è una forma di nazismo mascherato che agisce attraverso l’istaurazione di un puro e semplice terrore sanitario e di una sorta di religione della salute
Tralascio di commentare quanto scritto nella sua presentazione editoriale -che sembra non vedere nell’attuale sospensione della Costituzione il riflesso di quanto fece Hitler nel 1933, promulgando lo stato di eccezione per ben 12 anni- per venire subito al punto che mi fece deviare da questo argomento: l’intervista [VEDI] a un filosofo contemporaneo, citato nel libro: Giorgio Agamben, a proposito dei risvolti sociali e politici dell’attuale pandemia, vista come un laboratorio sul campo per l’implementazione totale del Security State, ossia di un dispotismo che, in nome di un concetto allargato di sicurezza e di sanità pubblica, riduce a zero l’autonomia degli individui nei loro comportamenti e spostamenti. Un atteggiamento governativo che, da un lato tende a “scaricare sulla popolazione le gravissime responsabilità dei governi, [perlopiù di sinistra o presunta tale NdA], che avevano prima smantellato il servizio sanitario nazionale” nell’ultimo Trentennio neoliberista, e dall’altro assesta gli ultimi colpi ad una democrazia già al lumicino con l’emanazione a raffica di autoritari decreti da parte degli organi esecutivi anziché di quelli legislativi, incardinati nel Parlamento, in dispregio della Costituzione, il cui garante tutto fa tranne che garantirla.
Tutto ciò, sottolinea Agamben, mentre lo stesso presidente dell’Istat Blangiardo esprime la sua perplessità sulle reali cause dei tanti decessi dichiarati, che non si discostano dalla quantità di decessi in tempi normali, portando perciò a chiederci “se la pandemia, pur senza volerne minimizzare l’importanza, possa giustificare misure di limitazione della libertà che non erano mai state prese nella storia del nostro Paese, nemmeno durante le due guerre mondiali.”
Agamben conclude l’intervista passando dall’attualità, che pure ne fornisce un sintomo, “a considerare le cose dal punto di vista del destino della specie umana sulla Terra” in base alle conclusioni del grande scienziato olandese Louis Bolk (1866-1930). “Secondo Bolk, la specie umana è caratterizzata da una progressiva inibizione dei processi vitali naturali di adattamento all’ambiente, che vengono sostituti da una crescita ipertrofica di dispositivi tecnologici per adattare l’ambiente all’uomo. [Nel far ciò, si riduce di pari passo l’habitat di tutti gli altri esseri viventi, erigendo l’uomo a massimo predatore della Terra. NdA]. Quando questo processo sorpassa un certo limite, esso raggiunge un punto in cui diventa controproducente e si trasforma in autodistruzione della specie. Fenomeni come quello che stiamo vivendo mi sembrano mostrare che quel punto è stato raggiunto e che la medicina che doveva curare i nostri mali rischia di produrre un male ancora più grande.” (Si noti per inciso come queste parole, scritte quasi un secolo fa, siano drammaticamente profetiche).
Questo approccio all’attuale maltrattamento della biosfera è talmente prossimo alle mie convinzioni ecologiche, esplicitate da ormai tre lustri su queste pagine e maturate nell’arco di oltre mezzo secolo, che faccio un’altra deviazione e penetro nel mondo di Bolk, in un approccio multidisciplinare. [VEDI e VEDI]

L’uomo mantiene anche da adulto le forme tipiche del feto rimanendo sotto questo angolo visuale un infante cronico. E anche le fasi della sua vita si manifestano con notevole lentezza rispetto agli altri primati
Nel 1926, Bolk presentò alla XXV Assemblea della Società di Anatomia a Friburgo il suo libro “Il problema dell’ominazione”, ossia l’interrogativo sull’insorgenza della forma e dello sviluppo dell’organismo umano, che egli, a differenza di Darwin, considerò non dovuta a fattori ambientali, quindi esterni, ma a fattori endogeni, che Bolk illustrò nella sua teoria della fetalizzazione.
Bolk notò che, a differenza degli altri primati, l’uomo muta assai poco dalla sua forma fetale e con tempi di sviluppo neppur comparabili con quegli di tutti gli altri animali. Sin dallo stato intrauterino, gli stadi del suo sviluppo sono estremamente lenti, così come quelli per raggiungere un’autonomia dalla tutela genitoriale. Dal punto di vista fisico certe caratteristiche mostrano tendenze conservative anziché evolutive, come la persistenza delle suture craniali, la mancanza di peli a protezione del corpo, il tardo insorgere della dentatura, la forma facciale in senso verticale (ortognatismo), la posizione della vagina orientata verso il ventre, la conformazione di mani e piedi, etc. La necessità di protezione sino ad età avanzata e il ritardo nel raggiungere le fasi fisiologiche della vita, che ultimamente sempre più denotano una sua protratta infantilizzazione, passando dalle cure dei genitori alla crescente pretesa di quelle dello Stato, perpetuando la sua dipendenza da fattori esterni, non fanno che evidenziare la sua incompletezza. Per Bolk l’uomo è come una “scimmia mancata”, nel senso che si è fermato ad uno stadio evolutivo anteriore alla scimmia, anziché viceversa, come generalmente ritenuto, sulla scia di Darwin.
Per la sua sopravvivenza in una natura ostile, l’uomo ha dovuto ricorrere al suo ingegno con l’invenzione di oggetti (dagli indumenti agli attrezzi), che sopperissero ai suoi mancati attributi per la sopravvivenza e per condurre un’esistenza non troppo grama. Di passo in passo, tuttavia, egli ha smarrito il senso del limite, per cui gli strumenti di cui oggi dispone hanno superato di gran lunga la funzione originaria di vicariare i mancati attributi, diventando fini a se stessi e comunque tali da accentuare la tendenza ad un eterno infantilismo (neotenia), prolungando le attività ludiche ben oltre l’età appropriata. Il gioco, e per estensione il divertimento, sono entrati nella vita dell’uomo-bambino sotto tutte le forme che ben conosciamo e che travalicano i bisogni fisiologici fondamentali.
La società s’è lanciata in forma nevrotica verso gli eccessi in ogni campo, a livello sia individuale che collettivo. Anche lo Stato s’è lasciato coinvolgere in questa satanica deriva, non per la ricerca di emozioni illimitate, come nei singoli, ma, al contrario, proprio per la pretesa di tutelarli, al pari di infanti, appunto.

Certi pensatori hanno tali capacità introspettive della società che riescono ad anticipare di decenni dove va a parare. Ivan Illich è certamente uno di questi: i suoi testi sembrano scritti oggi
La modernità non ha fatto che magnificare l’esigenza protettiva delle origini, accollandone l’onere dal clan famigliare allo Stato, in un arco che spazia dalla previdenza sociale a tutte le altre forme di assistenza che diamo ormai per acquisite e dovute. Il dramma di oggi è quello di uno Stato geneticamente mutato, nel senso che, mentre legifera (o decreta!) stringenti norme di comportamento, tende al tempo stesso a ritrarsi dalle sue funzioni pubbliche, traslando le stesse ad organismi privati che agiscono a fini di lucro anche in campi sino a ieri considerati no profit, come la sanità, la pensione, l’acqua, l’assistenza agli anziani, la rete stradale e ferroviaria, etc. L’uomo-bambino si ritrova così abbandonato, proprio nel tempo in cui le sue antiche capacità di destreggiarsi nell’arena globale sono ormai un lontano ricordo e d’improvviso si accorge della sua nudità. Inseguendo l’illusione di cambiare il mondo a proprio vantaggio con sofisticate tecnologie protettive ha perso nel contempo le nozioni di base per sopravvivere in un mondo che aggiunge alle primigenie avversità naturali quelle dell’artificiosità da lui stesso indotta, che paradossalmente non fa che ingigantirle.

La sensazione di pericolo (qui sopra la versione fiabesca di Pollicino) è soggettiva e manipolabile, tanto più quanto più l’uomo conserva connotati infantili ed è facile preda della paura, arma prima di ogni governo. Ogni colore politico agita il pericolo che gli procura il maggior consenso: il comunismo, il fascismo, l’immigrato, il Covid. Poi ciascun destinatario recepisce quello che gli appare come il più reale e temibile
In un contesto così privatizzato, artificioso e complesso, il cittadino scopre di non potersi più definire tale, in quanto le sue conquiste gli si ritorcono contro; diciamo, con un neologismo, che è bersagliato dal “fuoco amico”, che egli non è affatto attrezzato per affrontare, né fisicamente né mentalmente. La crescente ossessione per la sicurezza e la salute, agitando la morte come pericolo incombente, dopo averla rimossa per anni dal nostro panorama mentale, grava come una zavorra sulla nostra esistenza, nella pretesa di azzerare incidenti e malattie, con i primi che gravano in maniera insostenibile sull’economia, azzoppata dalla selva di norme antinfortunistiche e le seconde dovute ai tentativi di liberarcene, attraverso un assortimento di farmaci, che già mezzo secolo fa Ivan Illich definiva iatrogeni.
L’homo è sempre meno sapiens, essendosi svestito delle proprie mansioni di autosufficienza per consegnarle ad altri, allargando il fossato che divide la sua ignoranza dalla saccenza di chi se ne è appropriato, declassandolo a mero recettore di ordini dall’alto, espliciti o etichettati come “istruzioni comportamentali”, tuttavia sempre sanzionabili; e sanzioni rovinose per i più sono un deterrente inferiore solo al carcere, comunque previsto per le disobbedienze più gravi. Il Covid ha messo in chiara luce questa sudditanza, che riflette quella della classe politica da una cerchia di “esperti”, peraltro in perenne conflitto tra loro.
Nella mia ricerca su questo argomento mi sono imbattuto in un altro filosofo, a dimostrazione di quanto la filosofia sia tutt’altro che reclusa nelle sue remote stanze, e sia invece un valido viatico per meglio capire come va il mondo: Roberto Esposito

Professore Ordinario di Filosofia Teoretica all’Università di Napoli, Roberto Esposito studia da anni il fragile equilibrio tra comunità e immunità, “che oggi rischia di spezzarsi a favore di quest’ultima. Il rischio ultimo è quello di rafforzare talmente il sistema immunitario da rivolgerlo contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo”
Communitas e immunitas sono i due poli entro cui oscilla ogni consorzio civile, che può definirsi comunità in quanto si è instaurato un rapporto di convivenza e di fiducia reciproca tra i suoi membri, che si esplica nella protezione collettiva (immunizzazione) contro pericoli esterni. Quando invece questi pericoli sono avvertiti nei rapporti interpersonali, i contatti scadono a sospetti contagi e la coesione sociale va in frantumi. Più sinteticamente: l’immunitas separa, la communitas unisce (un’eco del motto alchemico solve et coagula).
“L’opzione immunitaria ha un prezzo assai alto: come il corpo individuale, anche quello collettivo può essere «vaccinato» dal male che lo insidia soltanto attraverso la sua immissione preventiva e controllata. Ciò vuol dire che, per sfuggire alla presa della morte, la vita è costretta a incorporarne il principio. […] Ormai questo meccanismo dialettico tra conservazione e negazione della vita sembra pervenuto a un punto limite, al di là del quale si apre la drammatica alternativa tra un esito autodistruttivo e una possibilità ancora inedita che ha al centro un nuovo pensiero della comunità. […] Si potrebbe dire che, per tenere qualcuno in vita, gli si fa assaggiare la morte. Del resto il termine greco pharmakon significa allo stesso tempo cura e veleno, cura mediante veleno. In termini socio-culturali si può dire che, con un eccesso di immunizzazione, si sacrifica la nostra forma di vita, il nostro modo di vita sociale, alla semplice sopravvivenza.” [VEDI].
Credo si possa fare un pur pallido confronto con la tarda antichità, quando lo Stato imperiale crollò per il suo troppo peso e l’uomo ne uscì enfatizzando il suo lato spirituale a detrimento di quello materiale. La strada imboccata nei secoli dell’espansione militare e territoriale era ancora agevolmente reversibile grazie proprio alla scarsa potenza di fuoco della sua tecnologia e al basso numero di umani sul pianeta. Il Medio Evo mise poi una pietra tombale sugli spunti tecnologici che la scienza ellenistico-romana aveva cominciato ad approntare, come documentato da Lucio Russo nel suo libro “La rivoluzione dimenticata”; [VEDI e VEDI] e per oltre un millennio l’umanità si adattò ad un consesso civile radicalmente opposto a quello dell’età imperiale. Ciò non vale più nel contesto odierno, con un’esplosione demografica senza precedenti e una capacità distruttiva in grado di annientare la biosfera, sia con la follia di una guerra planetaria, sia continuando con lo stile di vita consumistico sul quale ci siamo adagiati.
In conclusione, l’uomo è diventato il peggior nemico di se stesso e la battaglia che è chiamato a combattere è proprio per questo la più ardua di sempre. E, peggio ancora, nonostante i vanagloriosi propositi, sembra che non ci sia neppure la reale volontà di combatterla. Di questo mi ripropongo di scrivere in futuro.
Marco Giacinto Pellifroni 24 gennaio 2021