La scuola italiana fra nostalgie e…

La scuola italiana fra nostalgie
e mercanteggiamenti

La scuola italiana fra nostalgie
e mercanteggiamenti

 

So bene che di questi tempi i problemi del sistema formativo sono oscurati da altre drammatiche emergenze, come l’irreparabile scollamento fra politica e opinione pubblica, istituzioni e cittadini, eletti e elettori, per non dire del tracollo economico e dei conseguenti drammi sociali e, non ultimo, del  verminaio nascosto sotto il macigno del caso Palamara:  una magistratura intossicata dal potere e dal personalismo e in combutta col Pd, un verminaio che tocca prima ancora dei giudici la stampa e la televisione, che sono riuscite per una settimana a ignorare lo scandalo con la speranza che potesse essere insabbiato (mentre Mattarella sembrava e sembra vivere su un altro pianeta).


Un po’ in ritardo gli editorialisti più coraggiosi si spingono fino a riconoscere, bontà loro, che sì, c’è un problema di commistione fra magistratura e politica; ma la colpa, precisano, non è tutta della magistratura perché è la politica che per i suoi interessi ha sovraccaricato di potere la magistratura. E così, come spesso accade, la loro pezza è peggiore del buco dal momento che gli autorevoli maîtres à penser  tentano una volta di più di ingannare i loro lettori con un trucco semantico, sostituendo alla sinistra un generico richiamo alla politica. La politica non ci incastra niente, anzi, quel che è accaduto è proprio la morte della politica, uccisa dalla sinistra; e alla sinistra è il caso di dare il suo vero nome: il comunismo ereditato dagli anni atroci della guerra civile e della resistenza, gli anni del tentativo comunista riuscito a metà di impadronirsi del Paese. Lo stesso comunismo, o, se vogliamo, cattocomunismo, che ha distrutto il sistema formativo.

Tutto questo degrado, infatti, è figlio di un impoverimento morale, etico e culturale del Paese alla cui origine, come deve riconoscere anche Galli della Loggia, è il disastro della scuola italiana, iniziato nei primi anni Settanta e proseguito fino ad oggi.


Ma lo stesso Galli è vittima, forse inconsapevole, della presbiopia che sfuma, sfoca e sbianchetta la realtà: vede i mali che affliggono la scuola – e con essa la cultura – nel nostro Paese, rivendica la necessità di un ritorno ad un’istruzione seria e severa nutrita dei classici e ben impiantata sulla tradizione, ma non vede il tarlo che ne ha eroso le fondamenta fino a farla crollare. E quel tarlo, ancora una volta, è la sinistra e per sinistra intendo il partito comunista e le sue metamorfosi. Per impadronirsi del potere doveva distruggere lo Stato liberale, che il fascismo aveva solo intaccato perché ne condivideva appieno l’impianto valoriale: la sana retorica risorgimentale, il culto della latinità, il patriottismo, l’etica del dovere e la laicità dello Stato. Si è impegnata per conseguire questo obbiettivo, un’autentica rivoluzione culturale, non meno di quanto abbia fatto per giungere a controllare la magistratura e l’ha conseguito totalmente con un’azione sistematica condotta a diversi livelli  e con strumenti diversificati. Si è giovata dell’alleanza strategica con la Chiesa cattolica, appena coperta dalle schermaglie stucchevoli intorno alle scuole paritarie o all’ora  di religione, un’alleanza resa possibile dalla sostanziale affinità ideologica; ha organizzato e scatenato il movimento studentesco inserendosi sulla scia del sussulto sessantottesco per realizzare l’okkupazione militare di licei e università, ha usato il sindacato come un ariete per scardinare la struttura organizzativa della scuola e imporre la proletarizzazione degli insegnanti, riservando all’accademia il ruolo di propria riserva di caccia.

È troppo tardi. Troppo tardi per sperare nel ritorno a un linguaggio comune, a riferimenti condivisi, ad una consapevole identità. Ed è troppo tardi per correre ai ripari riformando ancora una volta i licei, restituendo dignità all’istruzione tecnica e professionale o intervenendo con decisione sui programmi. Il problema è ormai il corto circuito che si è creato fra la preparazione dell’insegnante e il contenuto dell’insegnamento: vorrei vedere con quanta convinzione e quanta efficacia il docente di latino e greco  formato nelle facoltà umanistiche postsessantottine, con l’eskimo orgogliosamente custodito nell’armadio, reduce dalle lotte e dalle okkupazioni, lui che è stato accompagnato in tutta la sua storia professionale dal sindacato e dal partito, vorrei vederlo impegnarsi  sui versi di Tirteo “è bello morire per la patria enì promàchoisi, combattendo nelle prime file” e spiegare agli studenti che quello è il fondamento della nostra civiltà. Cadere per la patria, ohibò, maschilismo, sessismo, militarismo… Insomma: piangere sul latte versato non serve a nulla; l’educazione classica presuppone una continuità di valori che si è rotta;  il destino degli italiani appare ormai segnato: quello di calpestare e custodire memorie aliene, come i croati e gli sloveni nelle città veneziane o i musulmani che si aggirano fra le rovine dei templi.


Cerchiamo di guardare avanti e accontentiamoci di mettere insieme i cocci di un edificio in rovina, che se non potrà tornare ai fasti del passato sia almeno in grado di impedire che il nostro Paese scivoli ai margini dell’Europa e dell’occidente. Una scuola che garantisca competenze, professionalità, rigore, a cominciare dall’uso corretto della lingua italiana. Ma anche questa è forse una chimera, se si guarda alle vicende che agitano  il mondo della scuola, dal mancato raccordo fra istruzione secondaria e università ai pasticci combinati negli ultimi anni con i piani di studio e gli esami di maturità e ora con il tira e molla sulla chiusura delle scuole, con la didattica a distanza, sulla quale mi sono già pronunciato, sui modi della riapertura fino al riproporsi del falso problema degli organici che si vogliono sempre più pletorici.

Dopo l’ultima, per ora, finta lite fra i compagni di merende giallorossi è arrivata la mediazione, della quale, ovviamente, è accreditato il Cicisbeo di palazzo Chigi: il concorso per mettere in ruolo 36.000 precari, che diventeranno 80.000, si farà, e sarà un concorso riservato ma con tutti i crismi di un concorso vero, con tanto di scritto  – non con le crocette – e di orale. Peccato che un concorso riservato è solo una foglia di fico per coprire un’altra imbuzzata della quale solo i sindacati e i diretti interessati avvertivano la necessità


Nella scuola ormai da tempo immemorabile si entra solo dalla porta di servizio. Quella principale, comune a tutta la pubblica amministrazione, che dovrebbe garantire alla comunità  la possibilità di scegliere quanto di meglio esce dalle università, la selezione concorsuale, è ormai sigillata.  La porta di servizio è quella dalla quale sono passati i bocciati dei vecchi concorsi, i beneficiati dai corsi abilitanti, quanti in un modo o in un altro sono stati inseriti nelle graduatorie ad esaurimento.  A memoria mia sono almeno quaranta anni che periodicamente viene annunciata la fine della piaga del precariato  attraverso quella che ogni volta dovrebbe essere un’ultima e definitiva sanatoria, col risultato che puntualmente il precariato si  ricostituisce, un po’ per l’interesse dei sindacati a gonfiare gli organici, un po’ per la miopia dei governi che con l’illusione di risparmiare  evitano di aprire la porta principale. 


Conosco bene i limiti dei concorsi a cattedre, so benissimo che sono uno strumento di selezione assolutamente imperfetto ma so anche che l’alternativa ad un concorso imperfetto consiste nell’organizzare concorsi un po’ meno imperfetti, non è certo quella di rinunciare alla selezione. E mi permetto di affermare che la funzione dei concorsi non è quella di scandire l’ingresso nei ruoli, prima questi poi quelli ma alla fine entrano tutti: un concorso riservato è una truffa perché, e lo impone il buonsenso oltre che la carta costituzionale, il concorso serve per scegliere le persone più utili per la comunità in un determinato settore e lo deve fare senza escludere nessun potenziale candidato; chi lo vince entra, gli altri si rivolgano altrove. La scuola non può continuare ad essere un ammortizzatore sociale.

  Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

  

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