La politica nel tempo della post-verità

LA POLITICA NEL TEMPO
DELLA POST-VERITA’

 

LA POLITICA NEL TEMPO DELLA POST-VERITA’

 Che cosa significa questo titolo? C’è forse mai stato un tempo della verità per la politica? E che relazione c’è tra i governanti e la verità? E l’arte di governare non dovrebbe basarsi sulla scienza politica, quindi sulla verità? Domande (retoriche) antiche ma sempre attuali. Vi ricordate i consigli che Machiavelli dava al suo principe ideale? “Quanto sia laudabile in uno principe il mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede per esperienza ne’ nostri tempi quelli principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli delli uomini: e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati sulla realtà”.


Da cui si deduce che, per Machiavelli, i cervelli degli uomini medi sono facilmente manipolabili da chi possiede la tecnica della persuasione, cioè la retorica; non per niente i giovani ateniesi del quinto secolo avanti Cristo che intendevano intraprendere la carriera politica andavano a scuola dai maestri di questa téchne che insegnava come rendere verisimile il falso e inverosimile il vero. Di qui anche la fortuna che la retorica ebbe in seguito ad Alessandria, a Roma e a Bisanzio, e poi nelle Scholae medievali e negli Studia humanitatis del Quattrocento e nei trattati cinquecenteschi sulle prose della volgar lingua…Oggi non si parla più di retorica ma di marketing o di “tecnica della comunicazione efficace” o, semplicemente,  di “propaganda”. Quanto poi all’impiego di documenti falsi o falsificati a fini di strategia del consenso e di egemonia politica la storia è prodiga di esempi: il più clamoroso falso storico rimane indubbiamente quello della Donazione di Costantino (Constitutum Constantini, 30 marzo del 315), su cui si è fondato il potere temporale della Chiesa anche dopo che l’umanista Lorenzo Valla ne ebbe dimostrata l’inautenticità nel 1440. Ma per venire ai tempi nostri, non v’è dubbio che la falsa attribuzione ai comunisti dell’incendio del Reichstag, a Berlino, il 27 febbraio del 1933, fu determinante per la vittoria dei nazionalsocialisti alle successive (e ultime) elezioni e per la presa del potere di Adolf Hitler.

 

Un altro falso storico, a parti invertite, fu l’attribuzione alla Wehrmacht del massacro di 22000 tra ufficiali, militari e civili polacchi a Katyn, nei pressi di Smolensk, avvenuto nel 1941; mentre fu invece l’Armata Rossa a macchiarsi di quel crimine. In tempi ancora più recenti, la falsa notizia che Saddam Hussein era in possesso di armi di distruzione di massa servì al presidente George W. Bush come pretesto per scatenare una guerra i cui tragici effetti sono ora sotto gli occhi di tutti. Appare quindi evidente che, come ha scritto Hannah  Arendt nel suo saggio Verità e politica del 1967: “La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L’abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata fra le virtù politiche e le menzogne sono sempre state considerate giustificabili negli affari politici”. Quindi, che bisogno c’era di coniare il nuovo termine “post-verità (calco dell’inglese post-truth)? In realtà nessuno, ma, come sanno i linguisti, ci sono neologismi fortunati e altri sfortunati; il termine post-truth fu messo in circolazione per la prima volta nel 1992 dal drammaturgo serbo-statunitense Steve Tesich, che, in un articolo uscito sul magazine The Nation, denunciava la reticenza mediatica riguardo allo scandalo Iran-Contra e sulla prima guerra del Golfo. Dopo di lui il termine fu ripreso da docenti universitari, saggisti e reporter americani, entrando così nell’uso comune dei media e dei talk-show, tanto che l’Oxford English Dictionary l’ha eletta parola dell’anno nel 2016.  

 

Il dizionario Treccani. It ne dà la seguente definizione: “s. f. Argomentazione caratterizzata da un forte appello all’emotività, che, basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera”. In questa accezione il termine non si riferisce tanto alla consueta e, per così dire, tradizionale manipolazione della verità da parte del potere (memore cosciente o incosciente delle raccomandazioni del Segretario fiorentino  al suo principe) ma all’incapacità del cittadino medio, esposto a un flusso incontrollabile di informazioni e di notizie che gli arrivano non più solo dai giornali e dalla televisione ma sempre più spesso  da Internet e dai social network, di discernere il vero dal falso, l’autentico dal taroccato, la bufala dalla notizia sicura; insomma, pirandellianamente, la realtà dalla finzione. Certo è che l’epoca della post-verità mette in seria crisi la stessa sussistenza di un sistema effettivamente democratico: se infatti il cittadino medio non è più in grado di discernere nemmeno quale politica va a vantaggio di molti e quale a vantaggio di pochi, non gli rimane che affidarsi a “color che sanno”, sperando che si tratti di una élite illuminata che agisce per il bene comune. Prendiamo solo il caso della moneta unica europea: a chi dobbiamo credere? A chi vuol tornare alle monete nazionali o a chi vuol proseguire verso il federalismo europeo auspicato da Altiero Spinelli? Il ritorno agli Stati nazionali e alle barriere doganali è un progresso o un regresso? Un sistema fiscale europeo unificato sarebbe più equo o più oppressivo? Una difesa comune europea sarebbe più efficace ed economica o più dispersiva e fragile? Putin preferisce un’Europa forte e unita o un’Europa debole e divisa? Idem per Trump.

E i terroristi che ci hanno dichiarato guerra ci preferiscono separati o stretti insieme di fronte al pericolo? Il problema dei migranti è meglio affrontarlo ciascuno per proprio conto oppure tutti insieme? E così via…A me pare che riguardo a tutte queste emergenze l’ultima scelta da fare sia quella della propaganda elettoralistica. Purtroppo siamo ancora lontani da una visione razionale, cioè non emotiva, della politica, ed è per questo che avanzano i cosiddetti populisti, i quali non sanno forse (o forse sì) di seguire le indicazioni di Hitler, il quale, ci ricorda la filosofa Gloria Origgi sull’ultimo numero di MicroMega, “scriveva nel Mein Kampf che una propaganda efficace deve basarsi sui sentimenti del pubblico e non sulle sue capacità razionali, su formule stereotipate ripetute fino alla nausea e su una chiara demarcazione su ciò che va amato e ciò che va odiato dai cittadini”. Temo che finché prevarrà la logica dell’amico-nemico l’umanità si troverà ancora a danzare a bordo del Titanic, inconsapevole dell’iceberg che si avvicina. 

FULVIO SGUERSO

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