La patata avvelenata di Berlusconi

La patata avvelenata di Berlusconi
La flat tax

La patata avvelenata di Berlusconi

 Facciamo due conti: il notaio P., mio vecchio compagno di scuola, ha un reddito imponibile annuo di 400.000 euro, che sono all’incirca 18.000 euro mensili netti. Se passasse la flat tax sposata dal centrodestra, con l’aliquota al 23% si metterebbe in tasca 6.000 euro di più, arrivando a 24.000 euro netti. Qualcuno dirà: ma sono soldi suoi e lo Stato gliene preleverebbe abbastanza anche in questo modo. Rispondo che in una comunità organizzata il guadagno è reso possibile dalle norme che la governano. E questo vale per tutti, per gli stipendiati come per i lavoratori autonomi o gli industriali, come vale, in generale, per la proprietà, che non è un valore assoluto. Tanto più vale per il notaio, un residuo tutto nostrano del medio evo che potrebbe tranquillamente essere sostituito da un timbro e dalla firma di un impiegato comunale.


Pagare le tasse, insomma, non è né un esproprio ingiustificato né graziosa beneficenza ma è il prezzo da pagare al sistema che rende possibile produrre reddito. Un concetto, questo, che sfugge ai giovani economisti di scuola libertariana – non dico libertaria per rispetto agli anarchici veri – che si dicono eredi di Bruno Leoni. Ricordo le parole di Berlusconi, accusato, forse ingiustamente, di avere evaso imposte dovute grazie ad una transazione taroccata: io, diceva, sono il maggior contribuente italiano, verso annualmente allo Stato diversi milioni di euro. E lo diceva come se li regalasse. Ma il Cavaliere dovrebbe sapere che è lo Stato che gli ha garantito e gli garantisce, consentendogli il monopolio della televisione privata, i suoi lauti introiti. E qualcuno potrebbe obiettare: ma col 23% un benestante dà allo Stato molto di più di quanto gli dia l’operaio col suo miserabile stipendio. Gli si risponde che il valore marginale dei 5000 euro che deve all’Irpef l’operaio è molto superiore ai 100.000 o al milione del benestante. Senza contare che se Berlusconi è uno e gli operai sono un milione lo Stato si regge più su questi che su di lui.


Se poi invece che al 23% la flat tax dovesse essere, come sostiene un esponente della Lega più realista del re, al 15%, le conseguenze sarebbero tragicomiche. Un lavoratore dipendente con 15.000 euro lordi subisce un taglio di 3.450 euro di Irpef che, con le ritenute assistenziali e previdenziali, porta lo stipendio netto a poco più di 1050 euro al mese. Con la riforma fiscale predicata da Berlusconi il suo stipendio rimane invariato mentre dalla proposta leghista trarrebbe un guadagno annuo di 1200 euro e, di conseguenza, il suo stipendio netto mensile passerebbe a 1142 euro, 92 euro in più, sai che botta. Ma un dipendente comunale con la qualifica di dirigente guadagna come minimo 100.000 euro lordi all’anno – nella mia città i dirigenti comunali sono più di una ventina –, e su di lui si abbatte l’Irpef per 32.360 euro, cosicché, per 13 mensilità gli vengono in tasca al netto dei contributi poco meno di 5400 euro. Scusate se è poco. Ma col 15% l’Irpef scende per lui a 15.000 euro, con un guadagno netto di 17.360 euro e lo stipendio che schizza a 6735 euro, sempre per 13 mensilità. Un bell’affare, non c’è che dire. In conclusione: se ora il rapporto, profondamente iniquo e assolutamente ingiustificato, fra i due lavoratori dipendenti è di 1050 euro contro 5400, un po’ più del quintuplo, con la riforma leghista il rapporto sarebbe di 1142 contro 6735, poco meno di sei volte di più. La Lega folgorata da Berlusconi ha proprio imboccato la via della giustizia sociale e del riequilibrio salariale! E non sto a sottilizzare sul numero di dirigenti per un comune che non raggiunge la dimensione di una circoscrizione romana. Non dico che ne basterebbe uno ma sicuramente cinque sarebbero già troppi, per non parlare della retribuzione, che con la complicità dei sindacati raddoppia o triplica quella tabellare, già cospicua rispetto a competenze responsabilità e vantaggi per la comunità, attraverso l’invenzione furbesca delle indennità, della retribuzione di posizione e dei premi. Insomma uno sconcio.


Mi preme denunciare una clamorosa bufala: in Italia si pagano troppe tasse, con riferimento all’Irpef. La pressione fiscale diretta in Italia è in linea con tutti gli altri Paesi europei, eccettuati i Paesi scandinavi in cui è molto più alta. Non solo: le aliquote fiscali sono progressive in Italia come in tutti gli altri Paesi europei, salvo, di nuovo, quelli scandinavi, dove è più accentuata. Quello che rende il nostro Paese il più vessatorio sono le imposizioni indirette, la miriade di tasse e imposte nascoste fra i meandri della burocrazia, il sistematico attacco alle tasche dei cittadini perpetrato con le accise sulla benzina, con le marche da bollo, le autorizzazioni, le licenze, l’imposta di soggiorno, l’obolo dovuto agli ordini professionali, il canone Rai, le spese per il passaggio di proprietà di un’auto magari stravecchia, il costo assurdo della carta di identità, tutto l’insieme di gabelle in gran parte ignote fuori del nostro Paese che colpiscono da ogni lato il cittadino. È questo che fa del nostro lo Stato più esoso del mondo occidentale. Senza dire che le condizioni in cui versano la sanità pubblica, la scuola pubblica, l’università, lo stato sociale, la sicurezza, rendono insopportabile il prelievo fiscale: perché si pagano le tasse? L’Italia è un Paese ricco: se il denaro pubblico fosse amministrato con criterio dovremmo avere servizi, assistenza, strade, scuole, ospedali da fare invidia agli svedesi.


Ci troviamo invece un Paese allo sfascio, fanalino di coda per la qualità della vita, nullità in politica estera, vittima della burocrazia, della corruzione e soprattutto dell’incompetenza. Il Paese nel quale i poveri diventano sempre più poveri, i ricchi sempre più ricchi e il ceto medio non esiste più. Le differenze astronomiche fra retribuzioni elargite dallo Stato, conseguenza diretta del familismo e della voracità dei sindacati, sono il segno del degrado sociale in cui versa l’Italia.

E la progressività delle aliquote serve proprio a sanare questa iniquità e a ricomporre, almeno in parte, l’equilibrio. La impone la Costituzione, che in questo eredita uno dei primi provvedimenti presi dal governo Mussolini nel 1923: la riforma del sistema tributario del ministro De Stefani che introduceva l’imposta complementare progressiva sul reddito. La Costituzione, che quando fa comodo è il Libro per diventare subito dopo carta straccia, la Costituzione che per quello di buono che contiene si vorrebbe stravolgere mentre guai metterne in discussione le norme liberticide che da transitorie son diventate definitive e quelle antidemocratiche che vietano il vincolo di mandato per i rappresentanti del popolo.

Ma i sostenitori della flat tax hanno l’impudenza di sostenere che la Costituzione verrebbe rispettata perché la progressività, nei loro progetti di riforma, sarebbe garantita da un cervellotico sistema di detrazioni, da un misterioso meccanismo di tassazione negativa e dalla progressiva eliminazione della sanità gratuita. Una barzelletta che non fa ridere, aggravata dalla minaccia di rendere indispensabile il commercialista anche per una commessa precaria. Non insisto sulla storiella che la flat tax scoraggerebbe l’evasione e farebbe emergere il sommerso: artigiani e dentisti, senza un controllo sul patrimonio, continuerebbero a evadere allegramente e ladri, spacciatori, prostitute, funzionari corrotti anche se lo volessero non potrebbero dichiarare i loro guadagni.

I politici non dovrebbero dire le bugie e Berlusconi l’ha fatto e continua a farlo quando cerca di vendere la sua aliquota unica invocando l’esempio di Trump e il rilancio dell’economia americana. A parte il fatto che la riforma fiscale di Trump non è ancora entrata in vigore e non so per quale portento dovrebbe avere già mostrato i suoi effetti, quella riforma, che personalmente mi sembra sacrosanta, riguarda le imprese e non gli individui o tantomeno le famiglie, che secondo il Cavaliere sono i veri soggetti fiscali; per loro le aliquote continuano ad essere progressive, restano 7 – dico sette – con un leggero ritocco verso il basso. Quindi i casi sono due: o il Cavaliere mente o è male informato e non so cosa sia peggio.


I compagni sono tardi ma alla fine capiranno qual è il tallone di Achille della coalizione di centrodestra. Per ora sono in un’impasse perché eliminare la progressività delle aliquote fiscale tornerebbe comodo anche a loro nonché alle lobby e alle caste che li appoggiano e ne sono emanazione. Però sanno anche che la destra e i Cinquestelle possono contare su un consenso plebiscitario finché i loro rispettivi programmi fanno perno sull’invasione e sui privilegi che i politici si sono accaparrati. Su questo terreno i compagni sono completamente spiazzati. Sul primo punto le hanno tentate di tutte: hanno cercato di convincere gli italiani che accogliere i poveri migranti è cosa buona e bella facendo leva sui morti in mare, meglio se bambini; hanno negato finché hanno potuto che i migranti pesano sulle tasche degli italiani: “paga tutto l’Europa”, dicevano; hanno spinto Boeri a sfidare il ridicolo affermando che i migranti ci avrebbero pagato le pensioni; poi hanno cambiato tattica e hanno tirato in ballo gli accordi di Dublino colpevolizzando la destra; alla fine hanno riconosciuto che sì, è un problema, ma il loro uomo, Minniti, l’avrebbe risolto. Non è servito a nulla. Il Pd è andato a fracassarsi sullo scoglio dell’immigrazione illegale. Sul secondo hanno glissato, hanno fatto finta di nulla fidando sul fatto che l’attacco alla politica avrebbe favorito l’astensione, che in questo momento è il loro migliore alleato, e convinti in cuor loro che l’ingordigia avrebbe impedito ai parlamentari in pectore di sbilanciarsi troppo sui futuri emolumenti che stanno già pregustando. Il maggiore pericolo viene dunque dall’invasione, perché mentre il tema della casta ladrona alimenta una protesta impotente che declina facilmente nella rassegnazione e può indifferentemente alimentare i Cinquestelle o l’astensione, quello dell’invasione suscita una reazione attiva, il bisogno di farsi sentire, l’esigenza di trovare una forza politica energica e rabbiosa che non si faccia irretire dalle sirene moderate.


Sono due elettorati diversi, che solo in parte si sovrappongono. L’elettore più sensibile alle ruberie della casta corrisponde maggiormente allo stereotipo del qualunquista. Non che le accuse che si rivolgono ai politici siano infondate, tutt’altro, ma fanno più presa su meno informati, su quelli nei quali la critica sconfina nel pregiudizio e si fonda sul sentito dire. Se non votano lo fanno per rassegnazione: votare non serve a nulla, sono tutti ladri…

L’elettore più sensibile al dramma dell’invasione è, al contrario, attivo e documentato; spesso è personalmente vittima del tracollo del welfare, si è visto negare a favore di uno straniero la casa popolare, sa che quello che paga per la mensa del figlio deve coprire i costi per lo straniero che non paga, vive in quartieri dove all’imbrunire scatta il coprifuoco, è consapevole del peso immane dell’invasione sull’erario, sa che gli africani che gironzolano in bicicletta per le strade della sua città li mantiene lui e cova una rabbia che a fatica si incanala nel voto. La Lega rude e rustica di Marcato può ricevere il suo voto, non certo quel signore in giacca e cravatta che a nome del Carroccio nel corso di un programma televisivo illustrava l’aliquota unica al 15%, credendo così di far meglio di Berlusconi. E se non vota non lo fa per rassegnazione ma perché non si fida e basta una scintilla perché la sua rabbia esploda nelle piazze.


Il momento magico di Lega e Cinquestelle era segnato non dai sondaggi ma dal panico che si era impadronito dei burocrati di Bruxelles, dei mercati finanziari, delle cancellerie di Parigi e di Berlino. Sembrava riecheggiare la voce di Marx “un fantasma si aggira per l’Europa”, non più il comunismo ma il populismo.

Non vorrei che questa vittoriosa spinta “populista” si fosse arenata; il “movimento”, che movimento non è ma solo ricettacolo del malcontento, non solo ha messo la sordina sugli attacchi alla casta ma sembra intenzionato a rassicurare Bruxelles e a darsi una veste rispettabile fotocopiando le liste di Forza Italia: notabili locali, professori universitari (sai che roba!), presidenti degli ordini professionali (buoni quelli!), industrialotti con ambizioni politiche e magari qualche giocatore di pallone. Sarebbe la società civile. E la Lega, invece di impegnarsi in una volata finale sul tema dell’invasione e presentarsi come la forza politica che provvederà al rimpatrio dei clandestini e alla messa in liquidazione di cooperative e Onlus, si è lasciata tentare dall’abbraccio mortale di Berlusconi, ha messo in primo piano il tema delle tasse, che è in sé serio ma si presta a scivoloni demagogici e, quel che è peggio, ha sostituito il suo programma originario di sgravi fiscali per le imprese con l’idea sciagurata della flat tax, che le farà molto male.


Aveva una carta vincente, l’ha rimessa nel mazzo e si è lasciata convincere a giocare un’assurda partita a vinciperdi, che sposta l’asse della coalizione verso il centro ed ha senso solo nella prospettiva dell’accordo già siglato Pd-Forza Italia. Il partito ha tradito la sua vocazione popolare, diciamo pure populista, e invece di impegnarsi, come complemento alla lotta all’invasione, su temi altrettanto sentiti come la fiscalità indiretta e gli squilibri sociali creati da comunisti e sindacati, che fanno dell’Italia un pezzo di terzo mondo in Europa: un Paese in cui i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, parla d’altro, farfuglia di un generico “prima gli italiani” ed esagera l’importanza di un tema marginale e controverso come la legittima difesa. Ci voleva Draghi per denunciare la distanza assurda e ingiustificata fa gli stipendi, sulla quale non dico i compagni del Pd ma nemmeno i paleocomunisti, quelli che vorrebbero – a parole – espropriare i possidenti, hanno mai avuto niente da obiettare. E la Lega si accoda a Forza Italia per annunciare la fine della progressività della leva fiscale, che, almeno in parte, serve ad attenuare quella distanza. Intendiamoci: anche se vincessero le elezioni non ci proverebbero nemmeno ad attuare l’aliquota unica per le persone fisiche, non fosse altro per l’isolamento in cui si troverebbe il Paese rispetto a tutto il mondo occidentale; ma il solo fatto di averla proposta finirà per screditarli ed esporli all’attacco di una sinistra che dalla sconfitta potrebbe uscire anche rinvigorita.

Si può essere certi che nel vivo della campagna elettorale i compagni useranno questo argomento snocciolando cifre su cifre per dimostrare che la coalizione di centrodestra è al servizio della ricca borghesia. Non gli servirà molto perché anche l’elettore più distratto penserà che si rinnova il vecchio adagio del bue che dice cornuto all’asino ma a rimetterci saranno la Lega che si è stupidamente allineata e la Meloni, che non si è accorta di nulla.

   Pier Franco Lisorini

 Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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