La morte della politica

Quando fugge dal presente e non progetta il futuro

Se è vero che lo psicologo al proprio cliente ansioso raccomanda di vivere in situazione, di non farsi risucchiare dalla spirale del tempo che fugit irreparabile, è anche vero che non si vive senza uno scopo, vale a dire senza un aggancio col futuro. E questo vale per i singoli come per le comunità.  Si può essere fiduciosi in un domani migliore, convinti di navigare nella corrente del progresso, o, al contrario, impegnati a restaurare un passato andato in frantumi con l’illusione di un impossibile ritorno. In un caso e nell’altro si dà senso al presente e si è parte di un progetto.  Penso alla mia generazione, cresciuta per un verso coi miti  di una scienza assoluta e della conquista dello spazio, per un altro con la convinzione che la politica potesse porre fine alle ingiustizie e alla povertà.. Ma penso anche a Paesi sfuggiti alla morsa dell’imperialismo europeo, stretti come l’Iran o l’Iraq o l’Egitto nella gabbia della religione ma rinvigoriti dal recupero delle proprie radici e pronti a rivendicare contro l’Occidente l’orgoglio di una civiltà millenaria.  Saranno pure miti di cartapesta, scenari fantasiosi e illusori, anacronistiche nostalgie o sogni di un visionario hanno però il merito di illuminare la strada e infondere energia.

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Il nostro Paese, fondato sulla nobile retorica risorgimentale amplificata dal regime mussoliniano e reinterpretata in modi più realistici nel dopoguerra si è improvvisamente arenato nel buio di un deserto desolato  e uniforme. Sopravviviamo in una disperata mancanza di senso senza sapere che direzione prendere, senza meta e senza ostacoli. Le stesse tensioni sociali non trovano più modo di esprimersi, manca una visione del futuro e se è vero che la politica si nutre di contrasti quando non c’è materia per contendere e non ci sono avversari con cui confrontarsi la politica muore

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Si può anche scherzare su “Giorgia nel paese delle meraviglie”, capace di fornire un’immagine onirica di sé e dell’Italia, di confondere realtà e fantasia, artefice di una comunicazione in cui niente è come viene presentato ed è impossibile distinguere la verità dalle menzogne. Crollo degli sbarchi di clandestini, rimpatri, diminuzione delle tasse, lotta all’evasione fiscale, fondi alla sanità, l’Italia tornata protagonista in Europa: sono i successi rivendicati dalla premier in due anni di governo. Peccato che sia tutto falso. Non si era mai visto un simile sprezzo del ridicolo, reso possibile da un sistema mediatico compiacente che nei pochi casi in cui solleva qualche critica al governo evita però accuratamente di attaccare la Meloni. E a sinistra e dintorni mentre continua il fuoco incrociato addosso a Salvini col contorno di sporadici e poco convinti attacchi a Nordio e Piantedosi e qualche battuta su Giuli non si tocca il manovratore-manovrato né il suo secondo e tutte le prestigiose (si fa per dire) firme dei giornaloni si diffondono in sperticate lodi e seriosi apprezzamenti alla premier, inversamente proporzionali alla sua statura personale (non alludo quella fisica) e politica, della quale i compagni dovrebbero esserle grati perché ha reso credibile un personaggio come la Schlein. Tant’è che in Liguria, per quello che possono valere elezioni in cui votano meno della metà degli elettori, un partito allo sbando come il Pd ha preso il 28% dei voti, pressoché il doppio di FdI. E l’uno e l’altro, pur con percentuali infime rispetto al corpo elettorale, sono gli unici partiti con un consenso appena apprezzabile (su mezzo milione di elettori la Meloni ha portato a casa poco più di ottantamila voti). Nel 1970 su 1.225.000 votanti Dc e Pci presero quasi quattrocentomila voti ciascuno: una bella mobilitazione popolare, non c’è che dire. Ma allora quei due partiti non erano solo portatori di programmi o rappresentanti di precisi interessi sociali ma avevano un bacino elettorale che si riconosceva in obbiettivi, valori, visioni. Ora nella palude della politica italiana rimangono a galla partiti iperpragmatici come il Pd e FdI, privi di valori, di visione strategica, di prospettive ideali, basati su clientele, favoritismi, lobby di ogni tipo.  Quelli che erano portatori di speranze, che interpretavano gli umori, le illusioni o la rabbia della società civile, la Lega, i Cinquestelle, la stessa Forza Italia, sono ormai scarnificati, hanno deluso i propri elettori, sono serviti solo a dimostrare che in Italia si promette di cambiare tutto per non cambiare niente.

Ma sulla Meloni c’è poco da scherzare. Il suo insediamento a palazzo Chigi ha suggellato la fine della sovranità e della democrazia in Italia, anticipata dal secondo governo Conte e formalizzata col governo Draghi. Politicamente l’Italia in Europa non conta più nulla, assolutamente nulla. L’Italia rimane, non certo per merito del governo, la terza economia del continente, non è stata ancora estromessa dal G7, gode ancora, seppure in modi non uniformi, di condizioni di vita in linea con i Paesi occidentali ma è avviata verso un declino che pare inarrestabile, imputabile alla sua marginalità internazionale e alla pessima gestione delle sue risorse umane. Supina e demenziale partecipazione alla guerra contro la Russia, incapacità di stabilire rapporti strategici con i principali attori sulla scena del medio e vicino oriente, una politica mediterranea risolta in chiacchiere e proclami, incapacità di affrontare alla radice il problema dell’invasione di migranti illegali: tutte conseguenze di un atteggiamento servile nei confronti dell’amico americano, al quale d’altronde la Meloni e il suo partito devono l’avallo senza il quale non si sarebbero mossi dall’anticamera del potere.  Si dirà: è la democrazia bellezza, l’hanno voluta e votata gli italiani.  No; gli italiani avevano voluto e votato l’asse Lega-Cinquestelle che aveva terrorizzato Bruxelles e insospettito lo zio Sam; dopo, frustrazione e inanità hanno fatto crescere il partito di quelli che a votare non ci vanno più, svuotando di senso la democrazia e la volontà popolare.

Meloni Schlein

La Meloni, come la sua controfigura piddina, è tanto abile nell’occupare le posizioni di potere quanto ignara dell’arte del governo, che è altra cosa rispetto alla gestione del potere, presuppone la disponibilità a mettere le persone giuste al posto giusto prescindendo da amicizie e parentele, richiede la conoscenza dei problemi che affiggono il Paese e l’energia necessaria per affrontarli, esige il coraggio non delle scelte impopolari, che sono semplicemente scelte criminali, ma di quelle che compromettono legami più o meno occulti e patroni interessati. Bisognava dire no a chi pretendeva di imporre sanzioni alla Russia e armare l’Ucraina, minacciare l’uscita dalla Nato creando un asse con Ungheria e Turchia, tenere un atteggiamento fermo verso Israele nel momento in cui è diventato chiaro che il suo vero obbiettivo non era Hamas ma l’Iran e in subordine il restringimento degli spazi destinati ai palestinesi. Ma ad un osservatore esterno guidato dai lumi della ragione che trovasse surreale e inconcepibile che l’Italia fosse caduta nelle mani di politicanti ingordi e incompetenti usciti da un partitino marginale radicato sulla nostalgia del Ventennio  il buon vecchio Leibniz potrebbe obbiettare che le cose non obbediscono alla pura ragione ma al principio di ragion sufficiente: tutto si spiega, anche ciò che prima che accada è assurdo. Il Paese soffre ma il pil resta stabile, l’italiano medio si impoverisce ma molti si arricchiscono e se la grande industria di pace collassa qualcuno la riconverte in industria di guerra, con maggiori profitti e tutela dell’occupazione  E se per noi tutti si avvicina la catastrofe c’è qualcuno dall’alto della sua mole che si frega le mani e può ben dire con la sua sodale: “stiamo facendo la storia”. Ma non è una storia a lieto fine.

Pierfranco Lisorini

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