La meta-architettura di Zaha Hadid

LA META-ARCHITETTURA DI ZAHA HADID

 

LA META-ARCHITETTURA DI ZAHA HADID

 Giovedì, 31 marzo, si è spenta a sessantacinque anni, in un ospedale di Miami, Zaha Hadid, uno dei più grandi architetti della cosiddetta età post-moderna,  archistar celebre in tutto il mondo per il suo modus operandi che sembra sfidare le leggi della statica e della scienza delle costruzioni, prima donna, tra l’altro a ricevere il prestigioso premio internazionale Pritzker, nonché la medaglia d’oro  del Royal Institute  of British  Architects.  Nata a Baghdad il 31 ottobre del 1950, si è laureata giovanissima in matematica presso  l’American  University di Beirut prima di trasferirsi  a Londra nel 1972 dove si è formata  alla scuola della Architectural  Association, quando vi insegnavano maestri come Renzo Piano, Rem Koolhaas, Daniel Libeskind, Elia Zenghelis…


Questo trasferimento a Londra si è rivelato decisivo per la sua vocazione di progettista d’avanguardia; come lei stessa spiega: “L’esperienza del trasferimento fu molto liberatoria. Londra, negli anni Settanta era molto più aperta di oggi. Adesso so che gli inglesi in realtà sono sciovinisti e misogini, ma allora coglievo soprattutto il loro amore per tutto ciò che è eccentrico, che mi ha permesso di fare ciò che desideravo…Certo, se fossi stata un uomo avrei avuto vita più facile”. Ma non  si può dire che il fatto di essere donna le abbia impedito di affermarsi nella professione: nel suo studio londinese, attivo da un trentennio, lavorano oltre 240 giovani architetti che portano avanti i suoi progetti in ogni parte del mondo. . .Hadid è stata un artista a tutto campo, come designer ha creato una collezione di calzature per Lacoste, una borsa per Louis Vuitton e una linea di gioielli per Swarovski.  Tra le sue realizzazioni più significative menzioniamo  il club The Peak a Hong Kong (1983), la stazione antincendio per la fabbrica di sedie Vitra (1990-93) e il Palazzo delle Esposizioni (1999) a Weil am Rhein; il Centro di Arte Contemporanea a Cincinnati (1998- 2001); il London Aquatics Center dove si svolsero le Olimpiadi e Paraolimpiadi di Londra del 2012;  la Stazione Marittima di Salerno; l’aereo Museo Messner in Alto Adige e quello che è considerato il suo controverso capolavoro:  il famoso (e famigerato) Maxxi.

     

Le opere di Zaha Hadid non sono di facile lettura: a tutto fanno pensare meno che ai non-luoghi  anonimi della post-modernità o ai tradizionali spazi espositivi. Le sue, più che costruzioni sono de-costruzioni architettoniche; non per un capriccio, infatti,  ha ideato la Mind Zone (la Zona della mente) all’interno  del New Millennium Experience della

Millennium Dome di Greenwich, a Londra: “Sin dall’inizio ho pensato all’architettura in una forma differente. Sapevo quello che volevo fare e quello che dovevo disegnare, ma non potevo farlo nel modo convenzionale, perché con i metodi tradizionali  non riuscivo a rappresentarlo. Gli strumenti  tradizionali della rappresentazione non mi erano d’aiuto. Così ho cominciato a ricercare un nuovo modo di progettare, per provare a vedere le cose da un diverso punto di vista. Poi, con il tempo, quei disegni, quelle prospettive e quelle pitture si sono trasformati nei miei veri strumenti di rappresentazione, qualcosa di più della semplice elaborazione di schizzi…Penso che il massimo impegno per un architetto debba essere l’organizzazione della pianta, saperci entrare dentro, gestirla e muoversi in essa. La fluidità della pianta, la sua frammentazione, l’azzardo perfettamente calcolato, sono idee desunte da Malevic e dai suprematisti, che conducono a nuove forme di utilizzazione e creazione dello spazio.

   

 Ci sono molte altre indicazioni desunte dagli insegnamenti dei suprematisti, come l’idea di leggerezza, la tensione a staccarsi dal suolo che ha prodotto lo sviluppo dell’ingegneria e ha reso possibile le cortine di cristallo di Mies van der Rohe a Chicago e New York…”. Alla luce di queste poetica meta-architettonica hanno poco senso le lamentazioni di chi, come l’irascibile Vittorio Sgarbi, rimproverava alla Hadid di non tener conto della funzionalità, per esempio, di un museo come il Maxxi, dove sui contenuti (le opere esposte) prevarrebbe il contenitore (il museo concepito anch’esso come un’opera d’arte). Sarà, ma l’idea di un’opera d’arte che ne contiene altre a me sembra un’idea geniale, un’idea veramente da grande artista quale era, nel bene e nel male, Zaha Hadid.

 

Fulvio Sguerso

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