LA MEGLIO CIVILTÁ
Dal 1945, col crollo del fascismo, abbiamo creduto che la democrazia fosse un valore fondante del vivere civile e non avesse alternative.
Dal 1989, col crollo del comunismo, abbiamo creduto che il capitalismo privato, basato sulla libera concorrenza, non avesse valide alternative.
Forti di queste granitiche certezze, non abbiamo neppure ritenuto degno di approfondire la terza delle tre gambe su cui si regge questa impalcatura: il sistema finanziario e monetario.
Tanto per cominciare, democrazia e libera concorrenza si basano sull’eguaglianza tra i cittadini e i concorrenti; ma ci siamo accorti che i cittadini sono eguali soltanto nella carenza dei diritti e nell’onere dei doveri, mentre la concorrenza parte tra uguali, ma finisce con una élite di monopolisti, accumulatori di ricchezze superiori a quelle degli Stati, ammesso che gli Stati possano vantare ricchezze, che non siano quelle ereditate da secoli migliori. Tant’è che, a mo’ di esempio, la nostra riserva aurea non è chiaro se sia dello Stato italiano o della privata Bankitalia.
E veniamo al suaccennato sistema monetario: si tratta della linfa di ogni nazione, ma anziché essere prerogativa e proprietà dello Stato, è appannaggio di un clan transnazionale.
Lo spunto a scrivere queste pagine me l’ha porto l’ultimo articolo di Ellen Brown, già citata più volte in passato, fondatrice e presidente del Public Bank Institute, dal titolo “Why does the Government Borrow, when it can print?” [Perché il governo prende a prestito quando potrebbe stampare (moneta)?”]. [VEDI]
Un interrogativo certamente non nuovo né alla Brown né a me; ma che evidentemente nessuno si pone, né ai massimi livelli istituzionali né tra le fila di giovani pronti a contestare di tutto, tranne la causa prima del nostro –e soprattutto loro- malessere.
In questi giorni si legge che l’UE ha aperto una proceduta di infrazione per debito eccessivo all’Italia ed altri Paesi. Sarebbe l’occasione giusta per chiedersi: ma perché questo continuo spettro del debito pubblico, dello spread, dei “voti” delle agenzie di rating, con relative oscillazioni degli interessi che lo Stato deve pagare sui prestiti cui lo stesso deve ricorrere per far fronte a tutte le mansioni che è chiamato ad assolvere?
Ellen Brown pone in evidenza che gli USA non si trovano in una situazione finanziaria tanto migliore della nostra, dovendo seguire le nostre stesse procedure di indebitamento, con gli interessi che valgono tanto quanto le spese federali per veterani, educazione e trasporti. O, detto in altri termini, venendo immediatamente dopo la già stellare spesa per la previdenza sociale.
Non ho sotto mano cifre comparative analoghe per l’Italia, ma è invece facile accedere agli importi del nostro debito pubblico: € 2.900 miliardi (o € 2,9 trilioni); rapporto deficit/Pil= 7,2%; rapporto debito/Pil= 137%. Gli interessi sui decennali viaggiano oggi intorno al 4%.
Gli interessi sul debito pubblico costano oltre € 80 miliardi l’anno. Cifra di un ordine di grandezza paragonabile a quella, impressionante, di 110-120 miliardi della spesa sanitaria e a quella, in continua crescita, della previdenza sociale (pensioni), arrivata a € 260 miliardi. Oltre Atlantico quest’anno la spesa per interessi è stata sinora di $ 514 miliardi e le previsioni per fine anno sono di $ 870 miliardi.
Sia al di qua che al di là dell’Atlantico il risultato è uno: quanto raccolto con le tasse non è sufficiente a coprire le spese dello Stato. Abolendo la voce interessi, ossia considerando il saldo primario del bilancio statale, quest’ultimo risulta spesso (non sempre, a causa di eventi perniciosi, come una guerra o una pandemia) in attivo. Esiste migliore dimostrazione della perversità di continuare a seguire il modello del debito perenne?
In sostanza gli Stati pagano le loro prestazioni ai cittadini accendendo prestiti mediante l’emissione di bond: continuando nel parallelo coi nostri cugini americani, Treasuries negli USA e Buoni del Tesoro in Italia; quando questi giungono a scadenza, se ne emettono di nuovi, pagando i debiti vecchi con debiti nuovi, ai quali si aggiungono gli interessi, che, non corrispondendo a soldi emessi in precedenza, richiedono prestiti equipollenti, rendendoli composti e quindi inestinguibili. Chi compra questi bond? In maggior misura le banche centrali, che emettono il denaro nuovo, le grandi banche internazionali, le banche nazionali, i cittadini. La voce migliore è proprio quest’ultima, in quanto perlomeno i soldi degli interessi rientrano nel circuito nazionale.
Circa l’entità degli interessi, cioè il tasso, esso fluttua secondo la regola della domanda e dell’offerta, condizionate però dal grado di presunta solvibilità dello Stato, influenzata a sua volta dal giudizio delle suaccennate agenzie di rating, spesso in conflitto di interessi. Si instaura così lo strano processo che vede pagare meno interessi chi appare più solvibile, e quindi è più opulento, mentre il contrario vale per chi fa più fatica a pagarli, accentuando la probabilità della sua insolvenza.
Sulla base di queste considerazioni, ha senso chiedersi, una buona volta, se questo iugulante sistema di contrarre debiti senza fine anziché stampare il denaro di cui lo Stato necessita, abbia un senso, o lo si adotti per semplice inerzia (o corruttela).
Per la verità, se oggi la domanda sembra non porsela nessuno è solo perché l’hanno avuta vinta i banchieri oltre un secolo fa, precisamente il 23 dicembre 1913, quando passò, in un Congresso semideserto per le festività natalizie, la legge istitutiva della Federal Reserve, sul cui modello venne poi istituita la BCE, ossia il modello del denaro a debito e a interesse.
Gli ultimi a contestare il modello erano stati i greenbackers nel 1897, facendo la prima marcia della storia su Washington e rifacendosi ai greenbacks emessi decenni prima dal presidente Lincoln, che vi aveva ricorso, onde non contrarre debiti a interesse con i banchieri inglesi. Si noti che lo stesso Lincoln venne assassinato, così come, nel 1961, JF Kennedy. Forse una coincidenza, ma entrambi subirono la stessa sorte dopo aver ribaltato il sistema del denaro a debito tanto caro ai banchieri e aver osato battere moneta pubblica.
Il XIX secolo fu testimone della lotta dei presidenti degli Stati Uniti per sfuggire alla morsa monetaria dei banchieri europei tramite le loro teste di ponte locali. Thomas Jefferson, James Madison e Andrew Jackson, oltre naturalmente Abramo Lincoln, furono quelli che maggiormente si distinsero in questa lotta contro l’usura dei banchieri.
Del resto, anche Thomas Edison, nel 1921, si pose la stessa domanda, dandosi anche la, peraltro elementare, risposta:
“Se la nostra nazione può emettere 1 dollaro in bond [treasuries], può altrettanto emettere una banconota da 1 dollaro. […] È assurdo dire che la nazione possa emettere $ 30 milioni di bond, ma non altrettanti in banconote. Entrambe sono promesse di pagamento, ma i primi ingrassano gli usurai, i secondi servono i cittadini.”E una domanda simile, sempre in quegli anni, se la pose anche Henry Ford.
Discorso valido pienamente ancor oggi. Eppure, tutte le bocche che contano e che dovrebbero ribellarsi a questo sistema perverso, sono cucite: hanno dato ai banchieri il potere di renderli loro schiavi e pertanto si comportano da tali.
Naturalmente, a quei pochi che suggeriscono l’alternativa, rispondono che, se non fosse per l’oculatezza dei banchieri, si stamperebbero troppi soldi, finendo nell’iperinflazione. E citano la Germania del primo dopoguerra, con la Repubblica di Weimar, che spalancò le porte al nazismo. Ciò non corrisponde al vero, in quanto ad una Germania sconfitta e in ginocchio economicamente venne chiesto di pagare una somma esorbitante in valuta estera, mentre la sua valuta si deprezzava giorno per giorno. Vale invece, di converso, l’esempio della Cina che nei 23 anni antecedenti il 2020 moltiplicò la moneta circolante di ben il 1800%, senza creare inflazione, in quanto quei soldi generarono infrastrutture, produttività, posti di lavoro. Anche i vari quantitative easing non causarono inflazione, ma per un motivo meno nobile: gonfiarono le quotazioni di Borsa, ossia la finanza, non l’economia reale. Anche oggi le Borse sono ai massimi storici, e viene da chiedersi se la finanza e il libero spostamento di uomini e merci siano davvero quello specchio del benessere generale che ci furono magnificate, a partire dal 1992, o non ne abbiano piuttosto beneficiato solo le élite, che un fossato sempre più largo separa dalle frange medio-basse.
Voglio terminare ricordando che sia il deficit che il debito totale di uno Stato sono perlopiù espressi in rapporto al PIL: in Italia siamo intorno al 7,2% e 137% rispettivamente. Per abbassare questi rapporti bisogna diminuire il nominatore (deficit – debito) o aumentare il denominatore (PIL, produzione). Poiché il debito, per i motivi sinora esposti, è molto refrattario a calare, e comporta misure di austerità, che la comunità è deputata a pagare, con conseguente malcontento e sfiducia verso la classe politica, che vive di rielezioni, non resta che premere l’acceleratore sul PIL. Per farlo, i politici non esitano a varare misure di forzatura, come il recente Superbonus, che ha dato un notevole impulso al settore edile, ma, essendo a carico dello Stato, ha anche provocato l’aumento del debito che si voleva ridurre.
Chi fa le spese di questo acceleratore premuto su crescita e produttività è l’ambiente, che sta dando sempre più segnali di insofferenza, col clima impazzito e il moltiplicarsi di malattie, come il cancro, di matrice in gran parte ambientale, attraverso l’acqua, l’aria, il cibo.
Non sarà la tecnologia a risolvere questo soqquadro, essendone la principale causa, ma un sistema di vita radicalmente diverso, che tuttavia la maggioranza non sembra essere disposta ad accettare.
Marco Giacinto Pellifroni 23 giugno 2024