La luce contro le tenebre

La luce contro le tenebre
L’intelligenza non è la norma ma l’eccezione

Non è un paradosso né  una provocazione ma  una tangibile realtà. Il processo di ominizzazione e l’evoluzione delle culture non sono la conseguenza di una spontanea maturazione ma il risultato della affermazione di portatori di diversità. Darwin per spiegare questo fenomeno è ricorso al paradigma della selezione naturale, che di per sé ha un’efficacia euristica molto limitata ed è suscettibile di clamorosi fraintendimenti. , rovesciando la prospettiva,  preferisco ricorrere ad un modello più semplice ma con un riscontro empirico molto più immediato:quello dell’entropia, che governa tutto l’universo ed è forse la principale acquisizione teorica della fisica moderna. Senza intereventi esterni la materia decade. Le forme della decadenza sono molteplici ma la sua espressione più drammatica è nell’invecchiamento. Nell’esistenza umana, che è imposizione di sé nel mondo, si presenta come routine, abitudine, perdita di iniziativa o semplice calo di energia e di forza muscolare. Il declino, più o meno felicemente contrastato, è la cifra della vita ma anche della storia.

I primitivi contemporanei – quelli spazzati via dalla colonizzazione o dal contatto con società evolute, erano sicuramente più primitivi di quelli storici. Il fossile vivente in ambito antropologico e culturale non è semplicemente qualcosa che si è bloccato  ma qualcosa che è arretrato. Perché non esistono condizioni permanenti, acquisizioni una volta per tutte: mantenerle richiede un continuo sforzo di rinnovamento senza il quale prima si ristagna e poi si muore, più o meno lentamente.

La nostra società non si sottrae a questo destino ed è perennemente a rischio di collassare. Quello che la salva, e che ha finora salvato l’umanità tutta, va cercato nella dialettica fra omologazione e diversità, che, trasferita sul piano delle funzioni superiori della mente, si presenta come lotta fra pensiero divergente e pensiero convergente, fra conformismo e anticonformismo, resa più complicata dal fatto che l’anticonformismo, come la diversità, ha aspetti funzionali e disfunzionali e  niente assicura il  prevalere dei primi o la loro distinzione. Quando il pensiero divergente riesce a imporsi nei suoi aspetti positivi si realizza il cosiddetto progresso, che in realtà consiste nel fermare la deriva e tornare indietro. Èaccaduto in Europa con l’avvento della scienza sperimentale, reso possibile dalla rottura con l’autorità e dallo scontro col suo custode, la Chiesa cristiana. Chi in questo scontro  è stato troppo diretto, come Giordano Bruno, è finito sul rogo;  Galilei, più accomodante se la cavò con un tratto di corda, Copernico nascondendosi prudentemente a cattolici e protestanti,  Newton subordinando le leggi della natura all’intervento di Dio fino a farne la prova della sua esistenza,ma tutti, compreso  l’antifilosofo Francesco Bacone si aprivano futuro tornando più o meno consapevolmente al passato.

Se non ci fossero forze che lo impediscono, la nostra attuale società perderebbe rapidamente le competenze scientifiche e tecnologiche che le consentono di fruire degli strumenti che la connotano, dall’automobile al cellulare, dall’illuminazione al televisore, dal treno all’aereo. Tutti sanno infilare una spina in una presa elettrica ma pochi sanno cos’è un circuito elettrico o perché usando il fon immersi nella vasca si rischia di rimanere folgorati.  A prevenire il lento disfacimento delle conoscenze provvede la loro istituzionalizzazione, che non è semplicemente conservativa ma è dinamica e innovativa. Gli istituti di ricerca che funzionano come tali, infatti, sono il luogo naturale della divergenza, ispirati come sono al popperiano principio di falsificabilità. Ma ci sono aree di competenza collettiva che determinano la tenuta del sistema, come la politica in cui la dialettica fra la maggioranza dei conformisti – potrei dire dei non-pensanti – e la minoranza, a volte irrisoria, dei non allineati, fra il pensiero conforme – potrei dire pigro – e il pensiero creativo, fra le tenebre della stupidità e la luce dell’intelligenza,  è decisiva per la sorte delle singole società e dell’umanità tutta e di norma a soccombere è la diversità.

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Il problema è che il potere decisionale interno alla società dipende in larga misura dalla capacità dei singoli di affermarsi sul gruppo, una capacità che è indipendente dall’intelligenza ed è correlata negativamente con la diversità. Il risultato è un’alta probabilità che a guidare il gruppo sociale non siano i migliori, i più capaci, i più lungimiranti ma i peggiori, i più sprovveduti, i più miopi, che proprio perché privi di senso critico sono anche i più sicuri e convincenti  E, una volta che si sono installati nei gangli vitali del corpo sociale questo comincia deteriorarsi e col tempo diventa sempre più difficile risanarlo. Solo mezzo secolo fa, quando nonostante la guerra fredda c’era una accordo unanime per impedire la proliferazione nucleare,  sarebbe stato impensabile che uno Stato instabile, politicamente ed economicamente irrilevante come la Polonia pretendesse di dotarsi di un arsenale atomico.  Solo Francia e Regno Unito erano ammessi nel club ma a rigide condizioni e per gentile concessione dei due partner, Usa e Urss, consapevoli che le valigette nelle mani dei loro presidenti bastassero a impedire anche la semplice ipotesi di un nuovo conflitto globale.

Il problema è che se in Europa c’è un mentecatto dovrebbe essere isolato ma ad essere isolato non è Tusk che progetta la guerra atomica ma Orbán che vuole porre fine alle tensioni nel continente; il problema è che l’Europa è veramente in pericolo ma il pericolo non viene dalla Russia, che semmai è un formidabile alleato, ma dal mondo islamico, dal dislivello culturale e dalla pressione demografica planetaria. Una miscela micidiale che se esplode fa crollare il continente a cominciare dall’Italia.  Un pericolo reale di fronte al quale non è solo lecito ma necessario essere preparati anche militarmente oltre che politicamente, culturalmente ed economicamente.  Si pensi al tragico esempio dell’impero romano, la cui caduta segnò anche la fine della civiltà grecoromana, la fine  o il degrado del diritto, delle istituzioni, della produzione scientifica letteraria e artistica; e tutto ebbe inizio con l’incapacità di debellare il tarlo che stava facendo crollare la struttura della società romana e spalancava le porte all’invasione.

Ma com’è possibile arginare la deriva cognitiva dell’Europa se il suo asse si è spostato verso i Paesi baltici chiusi in una prospettiva ristretta e deformante;  se tutti coloro che da un capo all’altro del continente guidano i Paesi europei sono l’espressione di società decapitate, nelle quali è calata l’oscurità, si è spenta la luce dell’intelligenza e la ragione viene emarginata e criminalizzata?  Tusk non è un’anomalia ma la regola confermata da Sanchez, da Starmer, dalla Meloni, dalla tedesca a capo della Commissione europea, dalla folle che ha escogitato il kit di sopravvivenza. Un’ebetudine generalizzata  sotto forma di acritica ucrainofilia, assenza di discernimento, rifiuto di considerare i fatti nella loro complessità. Il sostegno a una signora che si è arroccata nel palazzo presidenziale contro il parlamento e il governo, la legittimazione dell’annullamento del risultato elettorale col pretesto di influenze russe, il tradimento dell’elettorato che vota per il centro destra e si ritrova un governo di centrosinistra, uno scomodo sicuro  vincitore alle elezioni presidenziali incriminato e escluso dalle urne: dalla Georgia alla Romania,dalla Germania alla Francia sono questi i “valori della democrazia”, quelli che quotidianamente Tajani si impegna a difendere. Ma forse intende un altro tipo di valori.

E intanto i cosiddetti migranti continuano tranquillamente a sbarcare con i media che fanno leva sui buoni sentimenti imponendo naufragi fasulli e bambini affogati sulla via della terra promessa mentre lasciano intendere che sono in atto campagne di rimpatri che esistono solo nella testa dei fratelli d’Italia. E intanto la Meloni sfida il ridicolo col suo modello albanese miseramente fallito che tutti si accingerebbero ad adottare. Quella Meloni che ha  scongiurato l’orrore del riarmo  – ReArm – cambiandogli nome  e tace sullo  sdoganamento ufficiale delle mine anti-uomo, nella cui produzione l’Italia ha detenuto nel passato recente un triste primato che forse qualcuno dalle sue parti  rimpiange.

Ci sono dei momenti in cui avverto un senso di estraniazione. Intorno a me, per le strade, nei supermercati, sul lungomare, in palestra  vedo gente tranquilla, baracchine affollate  per l’aperitivo, cuffie e cellulari. Ma questi zombi si illudono che le farneticazioni di Starmer, di Rutte, della Kallas non li riguardino?  E non si accorgono che, grazie anche ai coloni israeliani, il fossato fra Occidente e mondo arabo si approfondisce sempre di più proprio ora che l’Islam ce l’abbiamo in casa e si alimenta quotidianamente?   Già ora il rapporto di uno a dieci fra italiani e stranieri è fuorviante perché  l’età media dei maschi stranieri è inferiore ai 35 anni mentre quella degli italiani sfiora i 50. Non solo. La percentuale di stranieri fra i nuovi nati continua a crescere – ora è intorno al 25% – mentre cresce anche la distanza fra la prolificità degli stranieri e quella degli italiani.  Ma non è solo una questione di numeri, che pure sono allarmanti: il problema è che l’identità degli stranieri  – parlo ovviamene di quelli provenienti dal magreb e dall’Africa sub sahariana – è riposta nell’islamismo e di generazione in generazione si rinforza nonostante il castello di menzogne dei teorici dell’inclusione. Un islamismo che veicola odio, rancore, frustrazione e l’attesa del segnale di un attacco che ci vedrà del tutto impreparati. Una catastrofe che, ben magra consolazione, non si verificherà perché  anticipata dall’altra definitiva catastrofe, quella nucleare.

I compagni sono stati abilissimi nel deformare la storia, sostituire la memoria reale con una memoria indotta, far credere che la guerra sia stata una palingenesi, l’intervento provvidenziale che ha partorito la resistenza, la costituzione, la democrazia, che ha liberato il Paese dalle catene della dittatura.  La guerra è stata ben altro. Ha vanificato progetti di vita, infranto regole, valori, certezze, ha spezzato la continuità del vivere quotidiano, è entrata nell’intimo delle persone  e ne ha sconvolto le coscienze.  Altro che fascismo e antifascismo;  quelle sono sovrastrutture che lasciano indifferente la società civile, alimentano e sono alimentate  da un’aneddotica  che riflette la concezione e la funzione della narrazione storica cristiana. Nelle stesse Nuove Indicazioni  per i primo ciclo di istruzione emanate dal ministro Valditara, per altro molto ben scritte e ricche di ottimi spunti, ci sono due gravi errori di prospettiva storica:  il primo è quello di considerare l’origine della civiltà occidentale come sintesi della tradizione greco romana ed ebraica quando semmai si può riconoscere che è il prodotto di uno scontro dialettico tutt’altro che indolore fra la prima e la seconda e tutt’altro che esente da insanabili e perduranti contraddizioni interne;  il secondo, ancora più grave, è l’acritica accettazione del luogo comune secondo il quale le guerre accelerano il progresso, quando è vero esattamente i contrario. A pagina 10 di quelle Indicazioni è scritto che “il sistema dei diritti e dei doveri di cittadinanza sono stati conquistati dall’Europa anche al prezzo di guerre terribili nella prima metà del Novecento”.  Quindi dovremmo ringraziare quelle guerre, che ci avrebbero elargito libertà e diritti.  In realtà il nazismo – ma anche lo stesso regime mussoliniano -sono il frutto avvelenato della prima guerra mondiale, che in Italia rafforzò e rese intollerabile l’eversione anarco-comunista e in Germania produsse un collasso sociale.  E se vogliamo parlare della seconda, che avrebbe partorito democrazia e diritti, troverei più veritiero riconoscere che al di là  della retorica nominalista nel dopoguerra  si è celebrato il de profundis della sovranità popolare e della partecipazione per non dire del senso dello Stato. Insomma, un disastro:  e quelle sono state combattute con armi convenzionali (a parte l’orribile, inutile, stupido suggello di Hiroshima e Nagasaki).

Pierfranco Lisorini

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