La libertà, la partecipazione e i troppi alibi di oggi
La rubrica firmata da Alberto Bonvicini, già comandante della Polizia Postale di Savona, ci accompagnerà con riflessioni dedicate all’impatto dei social network, di internet e delle nuove tecnologie sulla nostra società.
Con lo sguardo esperto di chi ha vissuto in prima linea l’evoluzione (e le derive) del mondo digitale, Bonvicini ci offrirà analisi lucide e senza filtri su temi che toccano da vicino il nostro quotidiano: dalle devianze giovanili alla cultura dell’emulazione, dal web come strumento educativo o distruttivo fino al lento smarrirsi del senso critico.
Uno spazio di pensiero libero, per leggere con occhi diversi quello che ci succede intorno
La libertà, la partecipazione e i troppi alibi di oggi
Quando Giorgio Gaber cantava che la libertà non è star sopra un albero ma è partecipazione, erano anni in cui, senza la contaminazione dei social, era più facile avere una propria opinione e un proprio pensiero. Magari, quando si esprimeva un concetto, si usavano parole autentiche: forse meno belle alla fonetica e più rustiche, ma di sicuro più personali e vere.
Adesso, tra termini come “inaccettabile”, “narcisismo” o “criticità”, si è creato un dizionario nuovo che all’apparenza riempie la bocca di chi le pronuncia, ma che per chi ragiona resta aria fritta.
Si assiste ormai da tempo a una battaglia continua, una gara a chi attacca chi, con frasi come “io l’avevo detto”, “lui si deve vergognare”, o “ha la faccia finita”. Ai tempi di Totò, almeno, tutto si concludeva con un mi faccia il piacere che faceva ridere. Ora, invece, sembra che smentire l’altro – o l’altra – pubblicamente, in diretta, in differita o in teleconferenza, sia diventata la massima soddisfazione. Una soddisfazione che regala più like e cuoricini, anche se l’obiettivo della discussione dovrebbe essere un altro: capire perché è successa una cosa, perché si ripete ancora, e non arricchire il proprio ego infischiandosene delle tragedie di cui si parla.

Giulia Tramontano uccisa da Impagnatiello (nel riquadro) a destra la notizia del cambio di cognome del figlio dell’assassino
In questo modo si danno alibi a chi, in futuro, commetterà reati, e si fornisce materiale a chi li difenderà. Voglio ricordare ai cari lettori che la giurisprudenza, sì, è fatta di leggi e decreti, ma anche le sentenze la costituiscono. E un precedente spesso è più che fondamentale per una buona risoluzione o per fare in modo che la pena sia molto meno gravosa.

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Mi viene in mente una frase cinematografica di effetto che trattava proprio una situazione di confusione totale tra onesti e rei, tra delinquenti ed eletti. Un attore diceva:
Dobbiamo prima di tutto ristabilire una linea: noi da una parte e voi dall’altra.
Questo dovrebbe essere sempre. Del resto, il dovere civico non dovrebbe essere legato a una eventuale segnalazione per una medaglia assegnata dal presidente Mattarella, ma soltanto a qualcosa di normale, con quella motivazione biblica che recita: perché è cosa buona e giusta. Da lì in poi tutto sarebbe più logico e normale, senza citazioni al telegiornale o convocazioni per l’attribuzione della cittadinanza onoraria.
Da qui si parte, citando per prima la frase della mamma di Giulia Tramontano, che già sconvolta e condannata per tutta la vita, si è trovata a dover ascoltare che chi le ha tolto per sempre figlia e nipote forse non voleva essere crudele, forse voleva soltanto interrompere la gravidanza, e di sicuro non l’ha premeditato. Quando invece è certo che la parola “crudeltà” si può abbinare anche a chi tira un calcio a una persona che non può difendersi. Una donna incinta già si difende a fatica.
E poi? Voleva interrompere la gravidanza? Con un coltello? Voleva fare un taglio cesareo? Cosa voleva fare? Aiutatemi, perché l’obiettivo non lo colgo e la ragione mi viene meno.
Il signor Impagnatiello, tra le altre cose, somministrava da tanto tempo anche del veleno per topi alla povera Giulia. E questo, cosa sarebbe? Non è premeditazione?
Mi tornano in mente i consigli che ascoltavo dai medici e in farmacia, quando la mamma di mio figlio chiedeva se potesse prendere un farmaco. Ogni volta si diceva: No signora, questo non va bene, questo si può prendere, questo no, questo altro solo se ha una forte allergia e non respira. E poi, proprio per la paura che anche un po’ di farmaco potesse essere dannoso, alla fine non si prendeva nulla e si passeggiava sul mare che faceva respirare un po’.
E poi si ascolta ancora chi dice: C’è differenza tra questo e l’omicidio di Giulia Cecchettin, perché Turetta l’ha proprio sequestrata con l’intento di eliminarla una volta per tutte, visto che non lo voleva più. Quindi premeditazione sì, ma crudeltà no, perché 80 coltellate sono l’azione di uno che colpisce con rabbia ed è inesperto.
E poi Impagnatiello si è visto crollare il mondo addosso, smascherato nelle sue bugie, e allora gli è uscito di testa.
Ma per favore. Basta. Basta.
Perché non ci si vuole rendere conto che tutte queste discussioni, diatribe e dibattiti non fanno altro che creare alibi per chi, purtroppo, commetterà azioni simili in futuro? Perché il nostro codice penale non viene applicato con ragionevolezza, giustizia, equilibrio e onore?
La parola onore. Sì, certo: dignità e onore esistono quando si fanno azioni per sé stessi e per il prossimo con onestà e correttezza assoluta. E se due assassini si comportano in quel modo disumano, la pena deve essere sempre la stessa, senza se e senza ma.

Manuel Mastrapasqua ucciso da Daniele Rezza pe rum paio di cuffiette
E se un ragazzo viene ucciso perché gli vogliono rubare un paio di cuffiette da 16 euro, non si possono dare 20 anni che poi diventano 10, forse meno, solo perché chi uccide è un disadattato o altro. Perché chi sta pensando a brutte azioni calcola anche queste cose, che creano una spinta maggiore di coraggio ad agire, sapendo che nel peggiore dei casi potrebbe anche non andargli tanto male.
Questo andrebbe detto in TV, sui social, nei dibattiti e nelle conferenze. Una linea comune che non significa pensarla tutti nella stessa maniera, ma pensare a quella frase:
Prima di tutto ristabilire la linea: noi da una parte e voi dall’altra.
Un giorno mi capitò di ascoltare la mamma del marinaio Tusa, perito nella collisione della M/N Jolly Nero contro la Torre Piloti. È disumano portare un’anziana madre, privata dell’unico figlio, a dover gridare e protestare con la corte che non rende giustizia. Eppure anche in quel caso, tra attenuanti, circostanze particolari, omissioni e altro, si è arrivati alla beffa.

Marco Vannini con la mamma
Qualche anno fa anche la mamma di Marco Vannini gridò il suo sdegno. Suo figlio si trovava in un posto che, dopo casa sua, avrebbe dovuto essere il più sicuro e accogliente: casa della fidanzata e dei suoceri. Dopo lo sparo a bruciapelo che gli lesiona organi interni in maniera irreparabile, i soccorsi arrivano due ore dopo. Eppure, durante uno dei processi, si dice – udite bene – che non è omicidio volontario, perché c’è da confondere tra dolo eventuale e colpa cosciente. Ma come? A mio figlio sparano a bruciapelo, dal collo alla spalla, e non c’è la volontà? Si pensa che dall’arma sia uscita aria compressa? C’è da impazzire. Non è solo un atteggiamento crudele e vessatorio: è anche una mortificazione del sistema che, se usato bene, funzionerebbe.
Bisogna lavorare a fondo per separare noi da una parte e loro dall’altra. E con questo è giusto essere intransigenti con tutti, ma nella maniera giusta e coerente, non con “questo sì e quello no”. Anche a costo di tornare al passato, non con dietrologie inutili e farneticanti, ma perché chi fa lezione corretta del passato può giudicare e valutare il presente con lealtà e con la sola linea praticabile: quella della verità.
Perché se pensiamo, ad esempio, al caso Tortora, quando si capì che un nome pronunciato da un pentito – ripeto, da un pentito, non da Montesquieu – era un errore voluto (“mi hanno detto di sbagliare”), bisognava avere la forza, molto lieve, di tornare indietro subito, tre giorni dopo l’arresto, e non arrivare al processo. E invece, parole originali dette da un inquirente: Non potevamo farci sfuggire la possibilità di avere un caso così gigantescamente importante come quello di indagare il personaggio più popolare del Paese.
E poi, se vogliamo essere corretti anche nelle impopolarità, bisogna esporsi. Nella tragedia della Costa Concordia fu giusto procedere contro Francesco Schettino. Ma in poche trasmissioni si è sentito dire che in quel momento lui era a un aperitivo vip e non in sala comandi. È vero che la responsabilità è sempre di chi comanda, ma in plancia c’erano due ufficiali, non Gigi e Andrea o Ficarra e Picone. E quando chiesi ad amici esperti, mi confermarono che sì, si poteva evitare quella traiettoria e c’era il tempo per farlo. Ma come mai allora? Era per l’inchino? E se era per l’inchino, chi vive in Liguria sa di aver visto spesso certe navi passare vicinissime alla costa. E quello cos’era?
E però la giustizia ha fatto giustizia nei confronti di uno. Un medico conosciuto alla Corsica Ferries, che quella sera era a bordo, mi disse che Schettino poi rientrò a bordo e, con una manovra eccellente, riuscì a far ruotare la nave affinché fosse distrutta e inclinata di appoggio a terra. Se non fosse intervenuto, la nave sarebbe andata al largo, replicando il Titanic cento anni dopo.
Poi bisogna sentire chi dice: Era destino, la bottiglia di champagne all’inaugurazione non si era rotta. Roba da tapparsi le orecchie con cuffie triplo spessore.

L’aereo precipitato a Ustica
Ma comunque lo sappiamo come è andata. Non sapremo mai invece se quella sera a Ustica qualcuno ha fatto quello che gli era stato ordinato o se qualcuno stava giocando a fare la guerra. E quel papà che in un secondo perse tre figli, la madre e la moglie, da 45 anni aspetta che qualcuno gli dica la verità. Ma in realtà chi sa aspetta solo che muoia anche lui così non se ne parla più. Anche lì, solo bla bla bla, solo prese in giro.
Un parente una sera andò a contestare tutta la pappardella di un generale in una trasmissione. Ma come finì? Tanta rabbia e nulla più.
Ci sarebbero centinaia di casi e situazioni, ma non basterebbero cento bibbie per scriverli.
Una sera, pochi giorni fa, un dossier di La7 ha raccontato, per l’ennesima volta, anomalie, cose strane e lati oscuri delle stragi del ‘92. Quel giornalista disse: Quando arrivammo in via D’Amelio, ci rendemmo conto che era uno scenario di guerra, come Beirut. E che la mafia da sola era impossibile. Ebbene, cosa succede? Nulla. Come in mille altre situazioni, solo parole che creano opinioni, ma di sicuro non mettono in moto la macchina della giustizia. Anzi, in quei casi vengono definiti corvi neri e traditori tre persone che – combinazione – sono già morte. Così almeno la colpa è loro.
Tornando sulla terra, tra poco comincerà il processo di appello ad Alessia Pifferi per quell’orrendo crimine. Ma nessuno, o sbaglio, contesta qualcosa a chi sapeva che era una mamma incapace di crescere una creatura? Lo sapevano in tanti, compreso il fenomeno “angelo Mario”, sempre super protetto dalle telecamere. Lo avete mai visto voi? E non mi si venga a dire che non ne può niente, perché tu lo sai chi frequenti e chi hai a fianco.
E chissà quando comincerà il processo – o se ci sarà – per quel regista americano, ricco, famoso e soprattutto americano, che per mesi, nella zona di Villa Pamphili e nel centro di Roma, ha avuto comportamenti assurdi e violenti con la gente, con le forze dell’ordine, ma soprattutto con la ragazza e la bambina. O magari lo porteranno via di corsa negli Stati Uniti.
E quella signora, che dalla finestra con il telefono in mano gridava Toglietegli la bambina, è ubriaco, è pazzo, è violento!, si è sentita rispondere che doveva stare zitta, perché lui era uno potente e americano, e se avesse continuato a fare la stalker avrebbe passato i guai.
A quel punto non c’è più niente da dire.
Come dicono a Napoli:
A fine ‘e juorne sta tutta cca.
E si può guardare pure John Wick. La serie.