La lezione afghana

Il precipitoso disimpegno americano dall’Afghanistan ha avuto il merito – o il demerito – di mettere d’accordo destra e sinistra nostrane, unite nel dare addosso a Biden, lo stesso Biden vezzeggiato dai media di regime e salutato dai compagni come salvatore del pianeta durante la campagna elettorale negli States. Ma da una e dall’altra parte su quale avrebbe dovuta essere l’alternativa al disimpegno solo una fitta nebbia di parole sconclusionate, testimonianza di uno stato confusionale senza steccati di partiti, di ignoranza, pressappochismo e ipocrisia equamente distribuiti.

E in più da Letta a Salvini si è assistito ad una sbracata gara di buonismo umanitario – al quale, lo   confesso, guardo sempre con diffidenza – che ha raggiunto il parossismo nel giornale diretto dal Feltri junior, che ai suoi venticinque lettori proclamava a tutta pagina “Accogliamoli tutti!”.  Nessuno si sottrae al coro lagnoso del “questi sì che sono autentici profughi”, “tutti dobbiamo farcene carico”, “ognuno deve fare la sua parte” e guai a quel perfido Orbán, al quale, per rompere le uova nel paniere della correttezza politica, si è accodato il cancelliere austriaco in una curiosa riedizione dell’asse austroungarico. Mentre l’ineffabile Sansonetti, il comunista d’antan, si rappattuma col detestato Di Maio, gongolante per il primato italiano nell’accoglienza di veri o presunti collaboratori, come se i problemi di un paese si potessero risolvere scremandolo della parte buona o della parte cattiva: un delirio. Che le persone direttamente compromesse con le forze di occupazione dovessero essere messe al riparo da ritorsioni è banale ma che questo diventi occasione per incoraggiare un esodo incontrollato e destabilizzante quasi che si dovesse evacuare un’area contaminata da radiazioni termonucleari è criminale.

Troppo tardi l’ipocrisia della politica, della stampa, degli intellettuali di risulta recita il mantra “la democrazia non si può esportare” (bella scoperta!), come se l’intervento della coalizione avesse avuto come fine l’esportazione della democrazia; perché è vero che la democrazia non è un verbo religioso da imporre con le buone o con le cattive ma è anche vero che l’ultima delle preoccupazioni dell’Occidente è quella di esportare una democrazia che l’Occidente stesso è ben lungi dal praticare a casa propria. Ciò che è stato esportato davvero, effetto secondario di obbiettivi geopolitici ed economici, è uno stile vita, una libertà sessuale, un consumismo incompatibili col costume, l’organizzazione sociale e l’economia afghani. La presenza della coalizione e di tutto il suo seguito ha infatti aperto una ferita nella società afghana, ha rotto l’isolamento che ne garantiva l’equilibrio interno, ha creato le stesse aspettative che hanno dato luogo alla spinta dell’Africa subsahariana e del maghreb verso l’Europa – e l’Italia in particolare – e ha messo in pericolo una fede religiosa che per secoli ha reso possibile sopportare povertà estreme e abissali divari sociali. E qui vengo al vero e insolubile problema non solo afghano ma di tutto il mondo islamico: quello della compatibilità della fede religiosa con ciò che noi intendiamo per civiltà, diritti – espressione cara alla sinistra – democrazia e giustizia sociale.

Con lo strapotere della tecnologia e dell’informatica Biden è convinto di poter annientare i signori della jihad, siano talebani, l’isis o il califfato, sunniti o sciiti, colpendo i Bin Laden di turno, le menti, gli organizzatori, i capi come se si dovesse distruggere un vespaio sopprimendo la vespa regina. Biden, come i nostri commentatori, come la nostra “classe politica”, come il nostro cattocomunismo, non riesce ad ammettere che il problema non è il califfato, non sono i talebani, non è l’isis ma è l’islam in quanto tale, sono i credenti, è la fede. La guida non è un barbuto nascosto fra le montagne ma è il corano così come dalla prospettiva opposta il pericolo per la fede e per la tenuta sociale non è il satana americano oltre l’oceano ma l’indifferentismo, la secolarizzazione, l’amore per la vita. Al pari del cristianesimo l’islam è una dottrina mortifera, che ripone il senso dell’esistenza nell’oltre l’esistenza, il fondamento dei valori nel loro superamento, nella nullificazione, una dottrina che risolve la paura della morte nel cupio dissolvi, nel martirio, nel sacrificio ma è anche un formidabile cemento sociale. È qualcosa che ci riporta indietro nel tempo, alla distruzione della civiltà e della cultura greco-romane, alla mutilazione delle statue, all’orrore per il nudo e per il sesso, al terrore del peccato e del diavolo che è in mezzo a noi e dentro di noi e all’incubo della dannazione eterna. Il problema sono i custodi della verità, i fedeli, i veri credenti minacciati dalla circolazione di beni voluttuari, dal denaro, dalla mobilità sociale, dalla rottura dei ruoli. E la grande maggioranza del popolo afghano, piaccia o no, si identifica nella fede, di cui i talebani, non senza contraddizioni, sono i difensori. E una società di credenti, come una nazione di patrioti, non può essere decapitata perché, come l’Idra di Lerna, finché si sente minacciata finché si sente minacciata continua a generare da sé i propri martiri e i propri leader. Nell’occidente libero dal potere temporale della chiesa il credente interpreta a suo piacimento la dottrina e la prospettiva escatologica è una questione che si affronta occasionalmente e in modi del tutto privati ma nel mondo arabo o arabizzato istituzioni, morale e dogma sono mescolati e quello che dal nostro punto di vista è fanatismo, estremismo o radicalizzazione corrisponde semplicemente al rispetto della parola di dio. È vero che i martiri sono per definizione eccezioni e che i combattenti sono una minoranza quantitativamente irrisoria ma gli uni e gli altri si sentono ed effettivamente sono interpreti della totalità dei fedeli, dalla quale non si è mai alzata una voce di condanna nei loro confronti. Condanna che, al contrario, colpisce puntualmente quanti sentono il richiamo dell’Occidente nei suoi aspetti più superficiali come l’esibizione o la mercificazione del corpo o in quelli più strutturali come la libertà di pensiero e di espressione o il riconoscimento della parità di genere.

C’è poi la ferita sociale aperta dalla presenza nel paese degli occidentali che ha lasciato dietro di sé una scia di corruzione, ha creato nuove disparità sociali e culturali e alimentato rancori e gelosie, senza trascurare la circostanza ovvia che, indipendentemente dalle intenzioni e con tutta la buona volontà dei comandi, la presenza di forze militari straniere –  che sono de facto di occupazione – rinsalda il sentimento nazionale anche a prescindere dalla funzione identitaria della religione. E dare ad intendere che i talebani siano un corpo estraneo ad un astratto “popolo afghano” è veramente una sciocchezza madornale messa in giro per interesse o sprovvedutezza. Il popolo afghano non sono le decine di emigrati che hanno studiato all’estero e non hanno più niente da spartire con la terra di origine né le donne o gli uomini che in vari modi hanno costruito la loro esistenza ai margini delle forze di occupazione ma sono proprio i talebani che rivendicano il ritorno ai vecchi equilibri sociali e culturali e che ora sono alle prese con le falle create dalla pesante tutela occidentale. Quale che sarà il suo destino, dissoluzione politica, centralizzazione sul modello pakistano o iraniano, regressione o rinnovamento, di sicuro per il popolo afghano i venti anni di occupazione militare, checché se ne dica, non hanno portato nulla di buono, come nulla di buono portarono in Italia, in Germania o in Giappone gli eserciti alleati. Solo in questi anni bui di sistematica mistificazione e di asservimento dei mezzi di informazione possono avere credito dichiarazioni farneticanti come quelle provenienti dalle mangiatoie delle Nazioni Unite, secondo le quali grazie ai venti anni di occupazione la durata della vita media in Afghanistan è aumentata di una decina di anni! I popoli non possono essere educati o indirizzati: o trovano dentro di sé l’energia per affermare la loro identità e sostenere il confronto col mondo esterno o vengono assimilati e annientati. Il rischio semmai è quello che rimangano sospesi troppo a lungo in un limbo che alimenta gli appetiti dei vicini più agguerriti senza che nessuno di loro riesca a prevalere. L’instabilità è peggio del peggiore regime ed è il migliore brodo di coltura per quanti puntano sulla redenzione e sull’aiuto di un dio che chiede atti di fede e promette in cambio la fine delle tribolazioni e la sconfitta dei reprobi. E allora, meglio tardi che mai, si levino le tende e che l’assurdità della vicenda afghana serva di monito per il futuro, con tutto il rispetto per che vi ha perso la vita; e al generale che afferma che con la presenza dei nostri uomini l’Italia ha guadagnato prestigio in tutta l’area risponderei che se questo era lo scopo ci sono altri modi per affermarlo e mantenerlo quel prestigio, politici, economici e culturali. Che se poi nelle mani dei talebani o dell’isis o del califfato l’Afghanistan dovesse diventare una minaccia per l’ordine globale e una culla per i terroristi in cerca di rivincite, la migliore arma sarebbe l’isolamento diplomatico e  commerciale di cui l’Onu dovrebbe essere promotrice: se non lo facesse per l’opposizione di qualcuno dei suoi membri sarebbe l’occasione buona per fare chiarezza e dare finalmente un senso e una funzione a un organismo che finora non ne ha avuti.

 La retorica e l’ipocrisia non pagano e finché si fingerà di credere che l’Afghanistan sia caduto nelle mani di cattivi venuti da un altro pianeta o che nel paese sia in atto una guerra civile con una popolazione inerme esposta al massacro, incoraggiando così ulteriori flussi migratori, non si farà altro che ritardare il fisiologico raffreddamento della fede islamica e si contribuirà a far coincidere identità nazionale e religione. L’erede di Pannella è arrivata a dire che nei venti anni di occupazione alleata gli afghani scappavano verso i paesi limitrofi per sfuggire al terrore: in realtà cercavano riparo dagli occupanti e dalla instabilità che la loro presenza procurava, tant’è che ora migliaia di famiglie che erano emigrate in Pakistan, in India o in Irak tornano nel loro paese, che, piaccia o no, è quello dei talebani. Brutti e cattivi che siano, sono loro il popolo afghano e vorrei ricordare che è passato esattamente un secolo da quando, dopo aver visto riconoscere l’indipendenza e la sovranità del paese, l’emiro divenuto re  Amah Ullah superando fortissime resistenze interne proclamava una costituzione che si sforzava di conciliare sharia e modernità, sanciva il diritto all’istruzione per le donne e le liberava dalla costrizione del velo, garantiva libertà religiosa a induisti, ebrei e sciiti e apriva seppur cautamente alla libertà di stampa. Non era il risultato di pressioni esterne ma il frutto di una maturazione interna. Ora che alle vecchie pulsioni colonialiste si è sostituito il moralismo pedagogico degli esportatori dei diritti portandosi dietro morte e distruzione il popolo afghano si è chiuso a riccio dentro il suo passato tribale. Diamogli tempo e lasciamo che ne esca da sé: di sicuro non lo aiuteranno né i droni americani carichi di bombe né i canali umanitari anglofrancesi. Meno che mai i nostri fanatici dell’accoglienza e del denaro che vi gira intorno.

Pier Franco Lisorini
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