La legittima difesa, la sicurezza e lo Stato che non c’è

La legittima difesa, la sicurezza
e lo Stato che non c’è

La legittima difesa, la sicurezza e lo Stato che non c’è

 Sulla legittima difesa la legge vigente non ha dato problemi finché il magistrato si è limitato a prendere atto delle rilevazioni di polizia e carabinieri e, accertati i fatti, chiudere il caso. Ma da quando si è cominciato a forzare l’interpretazione del testo e a imbastire processi che, anche se seguiti da proscioglimento, rovinano la vita di chi da vittima finisce per diventare imputato e a sfornare sentenze grottesche che impongono il risarcimento del danno occorso al rapinatore come se fosse un infortunio sul lavoro, è diventato indispensabile impedire ai giudici di fare danni ancorandoli a disposizioni che non lascino alcun margine di discrezionalità e che escludano esplicitamente qualunque forma di rivalsa da parte di chi nel corso di un’attività criminosa finisca leso da uno scalino rotto, da una trappola messa su dal rapinato, da una bastonata che questi gli ha inferto o da una pallottola andata a segno.


Il problema, insomma, non è la legge ma il modo in cui in alcuni casi è stata applicata. D’altro canto noi abbiamo probabilmente i migliori giudici del mondo ma sicuramente abbiamo anche i peggiori e dobbiamo mettere in conto di avere a che fare anche con i secondi.

Il problema non è neppure la detenzione di armi da fuoco, sulla quale c’è una sconcertante disinformazione. Ho constatato che proprio fra le persone più istruite c’è addirittura chi è convinto che detenere un’arma sia un reato, per non dire dell’ignoranza abissale riguardo alla classificazione delle armi, fra le quali si distinguono quelle di limitata capacità offensiva in libera vendita, le armi comuni e da tiro acquistabili con una semplice autorizzazione e le armi da guerra di cui è vietato il commercio. Eppure si parla e si straparla di difesa più o meno legittima senza aver letto il testo della legge, le proposte di modifica presentate dalla maggioranza – risibili – e senza conoscere le disposizioni sul porto, il possesso e la detenzione di armi da fuoco.

Del resto uno dei più riusciti test di psicologia di gruppo consiste nel fornire istruzioni da leggere attentamente in calce alle quali, come istruzione conclusiva, si prescrive di non tener conto di tutto ciò che è stato scritto. Il test funziona quasi sempre: la maggior parte delle persone non leggono fino in fondo le istruzioni ma si fermano appena credono di aver capito. Intendiamoci: questo comportamento non è segno di scarsa intelligenza o di superficialità quanto piuttosto un aspetto dell’economia che governa i nostri processi mentali e comportamentali, un po’ come l’anticipazione nella lettura o il completamento delle figure secondo i principi enunciati da Wertheimer; però è anche fonte di errori e malintesi, soprattutto quando vengono trattate come ridondanti informazioni essenziali.


È quello che accade sul tema della legittima difesa. Tutti ne parlano, tutti prendono posizione, e non mi riferisco alle chiacchiere al bar ma alle dichiarazioni di politici, personalità della cultura, giornalisti e opinion maker e nella generalità dei casi si ha l’impressione che parlino per sentito dire, che non solo non conoscano la normativa ma che siano incapaci di mettersi in situazione. In queste condizioni il problema reale tende a perdere i contorni fino a dissolversi e ridursi a una scelta fra due posizioni o, meglio, due atteggiamenti che richiamano la scala di Osgood: duro-morbido, intransigente-compassionevole, maschile-femminile, in cui i compagni, nella versione zuccherosa nella quale ora si presentano, si collocano ovviamente nella parte destra della scala.

In televisione libero spazio alle baggianate di una parte e dell’altra: “Se qualcuno entra in casa mia ne esce orizzontale!”, “Ma che dici? La vita umana è sacra”; “È mio diritto difendere i miei beni e la mia famiglia!” “I beni non valgono una vita, devi chiamare la polizia!”. Dibattiti spesso urlati, quasi sempre involontariamente comici, in ogni caso inutili.

La difesa da un’aggressione è sempre legittima: questo è un principio metagiuridico che nessun legislatore ha mai messo in discussione. Il punto è se è lecito aggredire qualcuno che si è introdotto in una proprietà, magari sparando al ladro sorpreso in un garage, in un magazzino o in un fondo agricolo. Per inquadrare meglio la questione pongo il dilemma in modo secco: il ladro sorpreso in una propria pertinenza va fatto scappare o può essere ucciso? È chiaro che se il ladro sorpreso non scappa non è più un ladro ma diventa un aggressore dal quale ci si difende con tutti i mezzi che si hanno a disposizione; ed è anche lapalissiano che il ladro che penetra in un locale abitato è automaticamente un aggressore. Ma se uno ammazza il ladro sorpreso a rubare in una sua proprietà senza che per lui sussista alcun pericolo o alcuna minaccia, quello è semplicemente un assassino al quale non concederei alcuna attenuante. Tanto per chiarire: il patto sociale da cui discende lo Stato garantisce la tutela della proprietà privata e in ogni Paese il furto è sanzionato ma nemmeno negli emirati viene punito con la morte.


Di fatto è molto più probabile e realistica l’eventualità che abbia tutto il tempo per armarsi contro il ladro uno che non è in pericolo piuttosto di un altro che, aggredito mentre dorme, sta mangiando o guarda la televisione, non è in grado di usare l’arma che possiede. Se ci riesce, ben fatto e l’idea che l’aggressore che ne esce ucciso o ferito possa essere risarcito è aberrante.

La difesa da un’aggressione, dentro o fuori le mura domestiche, è di per sé legittima ma si tratta di un diritto che è ben difficile esercitare. Se il possesso di un’arma mettesse al riparo dal rischio di essere aggrediti, lo Stato, come provvede alla vaccinazione obbligatoria, dovrebbe rifornire di revolver da portare alla cintura tutti i cittadini. Ma non è così. Fermo restando che se uno ci tiene ad avere un’arma basta che presenti una domanda alle autorità competenti e, accertata la sua idoneità, nessuno gli impedisce di comprarsela senza bisogno di nuove leggi, il possesso di una pistola, in generale, non dà alcuna garanzia. Intanto nessuno sta in casa davanti alla porta con l’arma puntata in attesa dell’effrazione. L’arma, non solo perché lo impongono le norme ma per semplice buon senso, va tenuta scarica e in un luogo sicuro. Notte o giorno che sia se uno o più criminali sfondano la porta e irrompono nella sua abitazione nemmeno James Bond avrebbe il tempo di prendere la sua semiautomatica, inserirci il caricatore, scarrellarla per mettere il colpo in canna e fare fuoco contro l’aggressore, sperando di non colpire il muro e prendersi il proiettile in testa. Come ho già detto, se qualcuno abbatte l’intruso, chapeau! Ma è più facile che sia il rapinatore a sparare. Purtroppo c’è solo da augurarsi di non doversi trovare in un simile frangente.


 La posizione della Lega mi lascia francamente sconcertato. Si è fatta trascinare dai compagni sul terreno delle armi sì, armi no, gli svizzeri sono armati e ci sono meno delitti, in America le armi libere provocano solo più morti, e così via sproloquiando. Salvini non dovrebbe dimenticare l’aurea lezione di Oscar Wilde: se affronti un imbecille sul suo terreno vincerà sempre lui per la maggiore esperienza.

Ma il problema è reale, drammaticamente reale, anche se i compagni pensano di risolverlo alla loro maniera, negandolo, e la risposta, visto che la difesa attiva è assai problematica, non è neppure quella passiva, perché ogni provvedimento di autotutela, inferriate, serrature sofisticate, sistemi di allarme può essere annullato da contromisure in una rincorsa tecnologica in cui vincono sempre i delinquenti.

Non si può chiedere ai cittadini di armarsi ma non si può nemmeno chiedere ai cittadini di vivere in un bunker. Il patto sociale impone allo Stato di garantire la sicurezza: a quest’obbligo lo Stato non può sottrarsi. Se si è arrivati al punto che donne sole non possono uscire di casa dopo l’imbrunire o che ci siano interi quartieri in cui è pericoloso avventurarsi, se in treno è lo stesso personale a sconsigliare di rimanere all’interno di scompartimenti deserti, significa che il patto sociale è stato clamorosamente violato.


La delinquenza non è distribuita in modo normale nella popolazione ma è concentrata all’interno di sacche di sottoculture ben identificabili. Fra queste una posizione di spicco è costituita dagli stranieri, regolari o irregolari, arrivati in aereo, in treno, in macchina o sui barconi (barconi per modo di dire, in realtà dalla nostra marina militare e da tutta la rete che ad essa fa riferimento). All’interno della popolazione degli stranieri il più modesto degli statistici può isolare i gruppi più a rischio di delinquere ed è su questi che si dovrebbe concentrare il lavoro investigativo, di prevenzione e di repressione. Se non si fa, qualunque riferimento alla prevenzione è una presa in giro. Come lo è quella sul numero e gli stipendi delle forze dell’ordine, un altro tema su cui si sbizzarrisce l’insipienza di politici, tutti, e di opinionisti. Gli effettivi delle forze dell’ordine in Italia, fra vigili urbani, guardia di finanza, carabinieri e polizia di Stato superano di gran lunga, in valore assoluto e relativo, tutti i Paesi europei e occidentali. Il loro stipendio è sicuramente inadeguato rispetto al costo della vita in Italia ma non si discosta dalla media dell’Europa occidentale ed è in linea con le retribuzioni nel pubblico impiego in Italia. Ma forse Cecchi Paone, che batte in ogni occasione su questo tasto, ha in mente Paesi in cui un poliziotto guadagna il doppio di un professore di liceo o di un medico ospedaliero (ce ne sono e ce ne sono stati di Paesi così; ci vada a vivere lui). Il problema non è di numero o di stipendi ma di efficienza, di preparazione, di organizzazione, di coordinamento fra inquirenti e magistrati e soprattutto di latitanza di una chiara e decisa politica a difesa del cittadino. Ma nel regime di sinistra non ci sono cittadini: ci sono solo sudditi, e il problema degli stipendi, Cecchi Paone, che si picca di essere un uomo di scienza per avere diretto qualche programma di divulgazione scientifica, dovrebbe saperlo, non riguarda i poliziotti ma tutti i lavoratori del nostro Paese nel quale è in atto una spirale perversa nella quale a stipendi inadeguati segue una depressione dei consumi e un cedimento delle attività manifatturiere che a sua volta produce disoccupazione e svalutazione della forza lavoro.

Ma il pensiero unico impedisce che si dica che i rom vivono in un’illegalità tollerata o che le leggi dello Stato non valgono per gli immigrati, non vuole che si sappia chi fornisce loro merce contraffatta, che si faccia chiarezza su come, quando e da chi vengono smistati e perché le loro condizioni sono così differenti, fra i molti tirati a lucido che sono ospitati in albergo, frequentano le palestre, gironzolano in bicicletta con le cuffie nelle orecchie e lo smartphone in mano, altri male in arnese che presidiano negozi, supermercati e semafori e con la cassetta piena di accendini e cianfrusaglie cercano di raccapezzare qualche euro, altri che vivono ammassati nei centri di accoglienza, senza dire di quelli che occupano i treni fermi nei depositi, bivaccano nelle stazioni o nei giardini pubblici, dormono sotto le stelle o dentro scatoloni. Si processa la Serracchiani quando per una volta ne ha detta una giusta affermando che il delitto compiuto da un ospite in casa di chi lo ospita ha una doppia gravità – fra quelli che hanno lanciato il sasso contro di lei non c’è solo il solito Saviano, che è quello che è e non rappresenta altro che se stesso, ma quel Roberto Fico al quale i Cinque stelle dovrebbero mettere un bavaglio o regalarlo ai compagni insieme ai 300 (trecento) voti che l’hanno mandato in parlamento, magari scambiandolo con la stessa Serracchiani – e non si può dire che son tornati i pidocchi, la scabbia, la tubercolosi, che è esploso il morbillo praticamente scomparso da decenni, e guai a sospettare che la meningite abbia a che fare con i barconi e con il focolaio in Nigeria. Gli stranieri, comunitari o no, delinquono in una misura pari ad almeno sette volte più dei nostri connazionali: sono il dieci per cento della popolazione residente e il quaranta per cento della popolazione carceraria, che fornisce un indice largamente in difetto perché la stragrande maggioranza dei delitti contro il patrimonio e contro la persona rimangono impuniti. In soldoni: uno straniero su 150 è un criminale a fronte di un italiano su 1000, ed è una valutazione che punisce gli italiani.

 

Che lo straniero privo di radici, per fame, per avidità, per invidia, guardi al Paese che lo ospita – o, meglio, che ha occupato – con occhio predatorio è un’ovvietà: sta alle istituzioni surrogare la mancanza di controllo interiore con un serrato controllo esterno ma non sembra che prefetti e questori siano di questo avviso. Siamo al punto che non dico la vendita abusiva e per di più di merce contraffatta ma il racket della prostituzione e lo spaccio di sostanze stupefacenti non solo sono tollerati dalle autorità di pubblica sicurezza ma sono considerati con favore dai comuni cittadini perché se nelle comunità che si arricchiscono o semplicemente sopravvivono grazie alle attività illegali queste venissero a mancare chi ne farebbe le spese sono proprio loro. Quando si arriva a questo punto uno Stato è al collasso e vorrei che la Lega non la buttasse in burletta dando l’impressione che la soluzione sia quella di incoraggiare le vecchiette a procurarsi un mitra. Quando tutti sanno che dall’est Europa c’è un via vai di pendolari della rapina in villa e si è incapaci di identificarli e bloccarli, vuol dire che lo Stato non c’è e sentire un Cecchi Paone che propone come soluzione più soldi, più uomini e più mezzi per polizia e carabinieri fa ridere: uomini e mezzi non servono a niente se non si sa come impiegarli e non si vuol sapere dove e contro chi dovrebbero essere impiegati.

Polizia e carabinieri sono strumenti dello Stato e agiscono seguendo le direttive dell’esecutivo. Ma lo Stato è finito nelle mani degli storici nemici della nazione, quelli che volevano regalare a Tito il Veneto e il Friuli, quelli che piangevano alla morte del “piccolo padre”, il compagno Stalin, quelli che ieri guardavano a Mosca e ora a Bruxelles, quelli della pangea, del frullato etnico e culturale, quelli che hanno tollerato e favorito l’invasione. Un’invasione destinata a provocare in tempi brevi una deflagrazione catastrofica, della quale la precarietà economica, l’insicurezza, il marciume di tutto ciò che sta intorno all’accoglienza sono solo i segni anticipatori; non sono io a dirlo, vox clamantis in deserto, lo ha dichiarato tranquillamente Toni Capuozzo, che non è né un estremista (semmai lo è stato ma di sinistra) né uomo di destra, lo va gridando con disperazione Meluzzi, uno dei pochi che danno dignità e decoro scientifico alle discipline psicologiche di casa nostra, lo dicono e lo pensano tanti, che hanno votato a destra, a sinistra, per la Lega o i Cinque stelle e ora guardano con sgomento al futuro che i compagni ci stanno preparando, ma bisognerebbe dire piuttosto alla fossa che stanno scavando per la nostra povera Italia.

Pier Franco Lisorini

Pier Franco Lisorini è un docente di filosofia in pensione

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