La forza del voto e del consenso popolare

La forza del voto e del consenso popolare
La piazza malattia mortale della democrazia

  La forza del voto e del consenso popolare

La piazza malattia mortale della democrazia

Nel Teage platonico un giovanotto pieno di buone intenzioni che aspira a fare i bene della com Teage platonico unità e vorrebbe fare carriera politica chiede a Socrate quali competenze siano necessarie e quale scuola debba frequentare per acquisirle. Non c’è risposta, il problema rimane aperto o, meglio, si rivela insolubile. Si sa qual è l’arte, la competenza, la scienza del musicista, del pittore, del matematico, del navigatore ma quale arte, quale competenza, quale scienza richieda la politèia, rimane un mistero. Altrove, in un’opera più fortemente strutturata e complessa, Platone dà apparentemente una risposta, che in realtà è una fuga dal problema, e dalla realtà: è quella dello Stato ideale governato dai filosofi e ordinato razionalmente con uno schema che pare riflettere l’ordinamento politico spartano. Ma è per l’appunto una fuga dalla realtà, non è una proposta politica: è piuttosto un mito, come si conviene quando si affronta una questione senza avere le risorse necessarie per risolverla. È una sorta di epoché, di sospensione del giudizio: si mette in soffitta (nella trascendenza) un problema in attesa di strumenti che consentano di recuperarlo ed affrontarlo con successo. Prendere alla lettera il mito è un grave errore che ne tradisce il senso e la funzione, che è una dichiarazione di impotenza, una resa, o quantomeno un riposizionamento, della ragione.

In buona sostanza: quando si tratta di matematica, di fisica o di qualche altra scienza le persone che vi si applicano dimostrano in ciascuna di esse il loro ingegno, la loro capacità di impadronirsi delle conoscenze già acquisite e di contribuire ad incrementarle e molte di loro vengono a buon diritto considerate delle autorità nei rispettivi campi. Ma quando si tratta di politica non ci sono esperti, non ci sono autorità, non ci sono certezze. Ci sono opinioni giustificate dall’esperienza e dal punto di vista di ciascuno, dagli interessi che si intende tutelare e dai valori che ci si propone di difendere. Non per niente gli antichi non hanno elaborato una techne della politica ma una techne della persuasione, l’arte di convincere gli altri della bontà delle proprie opinioni facendole passare per certezze. Mentre nelle scienze valgono le categorie vero-falso, in politica al massimo si ha a che fare con l’utile-dannoso o il giusto-ingiusto o il buono-cattivo, che malauguratamente non servono a nulla perché quello che risulta utile o giusto o buono per uno è dannoso, ingiusto, cattivo per un altro. Ed è per questo che in una società di disuguali ci si affida a chi ha la forza o il prestigio mentre in una società di uguali prevale il parere della maggioranza. Parafrasando un’antica sentenza: è giusto ciò che piace agli dei, in democrazia – sistema che presuppone una società di uguali – è giusto ciò che piace alla maggioranza. Concetto difficile da far accettare a chi è abituato a considerare la democrazia come uno strumento per imporre gli interessi di una minoranza, e non mi riferisco solo alla sinistra ma a tutti i partiti, che della democrazia hanno voluto far credere di essere l’incarnazione. 

Se a sei mesi dal suo insediamento il governo gialloverde gode del 60% del consenso dei cittadini, caso unico fra i Paesi dell’UE, vuol dire che il governo gialloverde finora ha operato ragionevolmente bene. Di fronte a questa ovvietà si leva l’obiezione del portavoce di turno del pensiero corretto: “Mussolini godeva di un consenso anche superiore”, seguita dall’imbarazzo dei sostenitori del governo. Un caso di scuola in cui hanno torto tutti. Inattendibile Cazzola, quello che manda a dire a Salvini di non annoverarlo fra i  60 milioni di cui il leader leghista intende farsi carico, inattendibile perché si decide solo ora, come tutti i suoi compagni di strada, a riconoscere che il regime non è stato una bieca dittatura imposta con la forza ad un popolo impaurito ma era sorretto da un consenso plebiscitario. E lo fa ora giusto per dimostrare che il consenso è una variabile trascurabile se non addirittura un pessimo segnale. Ma peggio di lui i suoi interlocutori e avversari – Rinaldi e un deputato leghista di cui non ricordo il nome – che farfugliano di situazioni non confrontabili, di accostamenti che non si dovrebbero fare. Dovevano semplicemente rispondere che quel dato, il consenso plebiscitario, dimostra che il governo del Duce corrispondeva alle attese popolari e, di conseguenza, agiva bene. Volessero i numi protettori della Patria che Salvini, Di Maio, Conte operassero concretamente in modo tale da meritarsi l’approvazione della totalità del nostro popolo (magari con l’esclusione di Cazzola), non solo rispondendo distrattamente a un sondaggio telefonico ma con una adesione convinta e motivata.  Tutto il resto è fuffa. 

Per carità non mi si dia del fascista. Il giudizio storico sul ventennio e sul Duce (non solo sul Duce, anche sulla monarchia) tiene conto del suo suggello: la catastrofe del ’43, la guerra civile, la ferita non ancora rimarginata nel corpo della nazione. La Storia è un giudice severo, non bada alle intenzioni, all’ideologia, neppure alla fortuna ma solo ai fatti; e sono i fatti, quei fatti, a condannare il regime non le balle degli antifascisti.

Insomma: la politica ha a che fare col bene: non si può non essere d’accordo col filosofo per antonomasia. Ma il bene è gelosamente custodito nella mente di Dio, che non è il vicino della porta accanto ma il nome di qualcosa che non si sa che cosa sia e che può essere definito solo negativamente. Quindi del bene si può parlare ma è come parlare del nulla. E, se si rinuncia al Bene, ai valori assoluti, riconoscendo la loro estraneità  rispetto al mondo reale  e la loro appartenenza al mondo ideale, cioè al non-mondo, non resta che mantenersi sul relativo, nel dominio tutto umano della soggettività, al cui livello, per ciò che riguarda le forme della politica, è consentito scegliere fra l’arbitrio e l’accordo, fra l’imposizione  e l’adesione, tenendo conto del dato incontrovertibile che in una società di uguali, come sono quelle occidentali, l’arbitrio e l’imposizione sono di fatto impraticabili. Resta quindi il consenso a garantire non tanto la legittimità ma la stessa tenuta dei governi e tanto più ampio e convinto è il consenso tanto più solidi sono i governi.

Ma il consenso non è garantito una volta per tutte e quanto più una democrazia è matura tanto più il consenso è fluttuante e rischia di venir meno da un momento all’altro aprendo la strada, qualora i governanti non ne prendano atto, a manifestazioni di protesta come quelle che in queste settimane hanno scosso la Francia. Dalle rivoluzioni però non esce mai niente di buono. Con tante ceste piene di teste di aristocratici e di rivoluzionari della prima ora, al termine della febbre rivoluzionaria iniziata nel 1789 le strade di Parigi ricominciarono ad essere percorse da lussuose carrozze con passeggeri imparruccati e dame ingioiellate, figli di venditori ambulanti, osti o mendicanti ma del tutto simili ai loro predecessori di sangue blu. Non era per questo che l’Incorruttibile aveva aizzato i parigini contro la monarchia in nome di antichi ideali di libertà e del nuovo verbo russoiano.


E, in tempi più vicini a noi, l’eliminazione fisica dello zar e di tutti i suoi familiari e il massacro dei kulaki ha fatto vittime innocenti per mettere la grande madre Russia in mano a un manipolo di manigoldi paranoici e sanguinari. Dalle rivoluzioni, quale che siano le cause che le hanno scatenate e fossero pure sacrosante, esce fuori il peggio del genere umano, le peggiori canaglie escono dai loro covi e occupano la scena, la ragione cede il passo agli istinti bestiali, il casseurha la meglio sull’ideologo e ai primitivi obbiettivi si sostituiscono il furto, la rapina, la vendetta privata e la violenza fine a se stessa. Il masochismo di certi nostri “intellettuali” si è esercitato e si esercita nell’arte di denigrare il nostro popolo perché refrattario alle rivoluzioni, sia quella religiosa della riforma protestante sia quelle sociali e politiche che hanno squassato la Francia, l’Inghilterra o la Russia. Io lo considero un titolo di merito per il nostro Paese, per la nostra cultura, per la nostra civiltà. Che la riforma, luterana o calvinista, abbia portato più spirito imprenditoriale (lo sosteneva Max Weber), più democrazia, più libertà di coscienza è una colossale bufala. La caccia alle streghe è proseguita nell’America quacchera quando da noi era solo un brutto ricordo, il bigottismo dei coloni è sopravvissuto fino a dopo la seconda guerra mondiale quando si intrufolava nella camera da letto anche delle coppie sposate, il linciaggio è stata una delle manifestazioni dell’autogoverno cittadino e, quanto all’Europa, gli ideali di liberté, égalité, fraternité non hanno impedito ai francesi di dar prova del peggiore colonialismo e del più brutale razzismo. Senza rivoluzioni noi abbiamo imposto al mondo il rifiuto della tortura e della pena di morte e, con tutto il nostro essere rimasti fedeli alla Chiesa universale, abbiamo aperto la breccia di porta Pia e creato uno Stato laico e libero dalle ingerenze religiose.   

La rivolta dei gilets jaunes va vista con simpatia ed è la cartina di tornasole di quanto lo strapotere della finanza globale sia illusorio: il diavolo, come sempre, fa le pentole ma non i coperchi. La sua creatura, quel giovanotto costruito al computer per cui si sono sdilinquiti il Pd e tutta la sinistra nostrana (ma direi meglio tutto l’estlablishment nostrano, destra, sinistra e centro) si è dimostrato un cane di paglia e la Francia che pretendeva di mettere il guinzaglio all’Italiana messo a nudo tutta la sua miseria e tutta la sua fragilità. I compagni, morti viventi che ripetono all’unisono la stessa monotona cantilena, non si arrendono nemmeno di fronte all’evidenza: se la Francia è costretta a sforare clamorosamente i limiti di Maastricht niente da dire ma se l’Italia si azzarda anche solo lontanamente ad avvicinarcisi deve essere duramente punita, perché la Francia è la Francia e noi non siamo niente.  Bella prova di patriottismo, di dignità, di intelligenza. La loro e, peggio che mai, quella delle garrule rappresentanti di ciò che resta di Forza Italia che si uniscono al coro.


La rivolta dei gilets jaunes va vista con simpatia ma non certo con invidia. I francesi che manifestano, non i violenti che spaccano vetrine, vanno capiti e moralmente e politicamente sostenuti, ma non invidiati come fanno ingenuamente tante persone (“loro sì che hanno gli attributi…”, “noi siamo un popolo di pecoroni”, e così via recriminando). E vanno anche compatiti perché sono giunti a questo punto di disperazione ma, ripeto, non vanno certo invidiati. Il voto del 4 marzo è stato qualcosa di più e di meglio delle manifestazioni e delle rivolte di piazza e i più avveduti fra i gilets jaunesne sono ben consapevoli quando guardano al governo gialloverde come il loro ispiratore e come capofila di un’Europa, se di Europa ci sarà bisogno, da riscrivere completamente.

Per concludere: la rivolta tatticamente può anche segnare un punto ma strategicamente è votata al fallimento e consente al potere di giocare sporco. Chissà come insieme ad una forzata apertura di Monsieur le President è venuta la strage di Strasburgo per far cantare la marsigliese al popolo bue e far riporre i gilet nell’armadio.

   Pier Franco Lisorini  docente di filosofia in pensione

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