La domenica: il giorno sacro del commercio

La domenica:
il giorno sacro del commercio

La domenica:
il giorno sacro del commercio

 

Mi tocca dar ragione a un prete. Si tratta di don Roberto Ravera, rettore del santuario della Madonna della Misericordia, a Cairo Montenotte.

Ha deciso di appende in bella vista il cartello: Domenica aperto, proprio sulla facciata della chiesa. Alcuni non hanno colto la salace ironia. Io per primo, quando ho visto la scritta, ho pensato: “Beh, vorrei vedere, mi sembra il minimo che sia aperto di domenica…” Salvo poi capire il senso della frase, nel contesto della perenne apertura dei vari centri commerciali, una volta solo all’approssimarsi delle feste, ora destinati a una ininterrotta disponibilità.

Faccio un inciso: non frequento la chiesa cattolica. Su questo argomento ho posizioni complesse, articolate, e non vorrei qui parlarne, soprattutto perché non interessa a nessuno. La mia assenza dalla chiesa va protestata perché è tanto più significativo che io, da “miscredente” approvi quello che fa questo parroco.

Si, ci sono i negozi sempre aperti. Centri commerciali e supermercati soprattutto. Outlet e megastore. Si, sono frequentati proprio dalle famiglie, di domenica, che vagano allibite tra una dimostrazione di pentole, un truccabimbi, lo zucchero filato o la degustazione gratuita di salsiccia. Tutto sponsorizzato dalla locale attività commerciale. Talvolta il tutto si realizza in questi villaggi caratteristici, costruiti apposta, finti come una moneta da 70 centesimi, che rimandano ad un antico paesello, tutto cotto, legno e pietra, invero molto belli.

In sostanza assomiglierebbe, il tutto, alla domenica del villaggio, intesa come festa paesana. C’è la gente indomenicata, c’è l’ozio, c’è il commercio, la musica, i giochi, lo spazio per ritrovarsi e incontrare vicini e parenti.


E non si capisce perché questo tipo di festeggiamenti non possiamo più farceli per conto nostro, nel nostro paese. Tali e tante sono le difficoltà burocratiche legate alla festa in piazza, che molte “pro loco” hanno quasi rinunciato. Per condire il tutto occorre ricordare ancora che siamo andati ad abitare in città, o un grossi palazzi grigi, lasciano l’antico borgo (così ben ricostruito nell’outlet) a diroccare silenziosamente, albergando faine e volpi, lunghi germogli di spine e ortiche altissime.

Quello che meno si nota, però, è la mancanza del sacro. Il giorno di festa, di feria, il giorno del santo patrono del paese, era prima di tutto una festa sacra, un lasso ti tempo particolare, in cui si seguivano dei rituali. Nel contesto della festa fioriva il commercio, per cui il santo patrono si festeggiava anche con una fiera, consuetudine tanto radicata da fare in modo che una certa fiera prenda proprio in nome del santo, si dice infatti: “Fiera della Madonna” ad esempio.

Ma il sacro non è produttivo, profittevole. E in questi tempi in cui il profitto è di gran lunga l’unico metro che abbiamo, il sacro in genere è sempre più confinato nei recessi, negli angoli, negli scaffali dimenticati.

La sacralità degli atti, le consuetudini sacre, sono propriamente improduttive. E non sono esclusive di nessuna religione. Conta la fede, e questa può essere anche nella ideologia politica. Il Primo Maggio o l’Otto marzo sono ricorrenze eminentemente sacre, anche se la seconda è stata forzosamente dissacrata e ridotta a “festa della donna”, generando una quantità di pensierini banali validi per il tempo che dura il pronunciarli.

Certo, il confine con la retorica è sottilissimo. Proverò a dire che la retorica è serva del potere, e quindi quando questa proviene da un’istituzione occorre guardarla con sospetto. Quando la stessa retorica è celebrazione famigliare, locale, paesana, la si può forse guardare con maggiore accondiscendenza, anche se il rischio è quello di cadere nel folklore. Ma non divaghiamo.

In ogni caso il sacro è accantonato: occorre produrre, occorre vendere, occorre avere negozi aperti, servizi, distributori, svaghi, attività sportive e turistiche, tutto funzionante a pieno e forzato regime.

 

Avere un supermercato aperto sette giorni su sette dall’alba al tramonto è di per sé una buona cosa. Ma cancellare lo spazio diverso, annullare la domenica, il giorno del Signore (il giorno del sacro e dell’introspezione, della pausa improduttiva, dell’ozio e dello svago) significa sempre più lasciare spazio solo alle logiche del profitto: lavorare di più per spendere di più. Oppure lavorare di più in settimana per avere più tempo di domenica da spendere (con i pochi soldi) nelle attività commerciali.

Si capisce bene che quando riusciamo a sottrarre spazio al sacro, questo spazio “vuoto” non viene sostituito con qualcosa a pari o maggior contenuto etico, spirituale, filosofico, intellettivo, comunitario, affettivo, amichevole, accogliente o anche semplicemente e banalmente ozioso, ma con un processo in qualche modo produttivo, in cui tentiamo di soddisfare bisogni che ci hanno imposto, in cui ci portiamo avanti con il lavoro di casa, per avere il tempo di guardare la tivù da cui apprendere quali sono i nostri sogni.

A ben guardare sembra proprio impossibile che un tempo gli uomini dedicassero tante energie e ore di lavoro e fatica al sacro, sia pure per le grandi costruzioni religiose, ma anche per i piccoli piloni votivi, per i loro arredi e per il loro mantenimento. Allo stesso modo per i monumenti in ricordo di caduti o di eventi particolari; oppure perfino nel più intimo della casa, dove i Lari presiedevano invisibili, alla lettura e alla narrazione, una volta scesa la notte, di vicende certamente inventate, ma a cui tutti credevano fermamente, allibiti nella storia. Non era pure quello uno spazio sacro?

Rimando, in conclusione, alle preziose parole di chi è occupato con dedizione allo studio del sacro, soprattutto negli ambienti rurali. Meditate, gente. Meditate…

…Sono le figure del sacro teatro celeste, in particolare la Madonna o san Giuseppe, poste sulla soglia del villaggio o sull’uscio delle case. Sono le acquasantiere delle stanze nelle case rurali dov’è conservata l’acqua benedetta per segnarsi al mattino, appena dopo il risveglio, e la sera, prima di coricarsi. Sono i volti minacciosi, le chimere e i mascheroni sbozzati in basso o altorilievo sulle case o sui muri e rivolti verso le vie di accesso o verso il buio. Sono i pagliacci messi a braccia aperte in mezzo al campo. Sono le edicole e le cappellette poste sul trivio o sul crocevia, allegoria del dubbio, della scelta, della tentazione o del rischio di sbagliare strada (nella parte absidale, alcune cappellette hanno una piccola nicchia con un santo posto a fronteggiare la parte oscura del mondo). Sono gli oggetti benedetti, che farne un inventario sarebbe interminabile: penso ai pani azzimi con impresso il profilo di un santo o altri simboli religiosi, come l’effigie di sant’Antonio abate sulle gallette da appendere nelle stalle per proteggere gli animali rurali, o quella di san Rocco sulle micche da tenere in casa per conforto spirituale e protezione (e, quando bisogna, anche rimedio) contro le malattie.

Venendo meno la relazione con il mondo invisibile, anche nello spazio rurale i significati di sacramentali, oggetti benedetti, immagini di protezione, liturgie, nel tempo si diluiscono, smarriti e qualche volta invertiti nella loro parodia: le figure guardiane intorno alla casa sostituite da gnomi e balocchi, le sagome dei galli usate come decorazione spiritosa di villette e ristoranti, le feste sacre mutate in sagre paesane, e i pagliacci nel campo che a torto si crede nascano per tenere lontani passeri e corvi (ma i contadini sanno che per spaventare gli uccelli ci vuole ben altro).

Venendo meno quella relazione, si dimentica la buona ragione di tenere un gallo per annunciare il ritorno della luce.[1]



[1] Massimo Angelini, Minima ruralia. Semi, piante e mondo contadino. Pentagora, Milano 2013

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