La cucina che cambia

La cucina che cambia

La cucina che cambia

 Fino a quarant’anni fa c’erano le trattorie o i ristoranti. Non c’era molta differenza. Tendenzialmente era una questione di classe sociale dei clienti: nella trattoria si fermava a mangiare chi lavorava, chi era in viaggio. Al ristorante ci andavano quelli ben vestiti, e mangiavano piatti preparati sul momento.


Dalla fine degli anni Settanta compaiono (portati in evidenza dalla televisione) i primi, grandi cuochi (non ancora chef ): Pinin Cipollina, Gualtiero Marchesi o Luigi Carnacina, tanto per dirne qualcuno;  o i gastronomi più popolari, come l’indimenticabile Veronelli, o Vincenzo Buonassisi, o Gianni Brera. Erano figure nuove per il grande pubblico. E con loro (cuochi e gastronomi) si giungeva codificare e identificare una cucina nazionale, anzi: una cucina regionale nel contesto di quella nazionale.

Se da un lato c’erano gli esperti che raccomandavano prodotti (già di locale si parlava), tipi di condimento o di preparazione, accompagnamento di vini, d’altro canto, proprio in quegli anni, fioriva la grande distribuzione. Finalmente si diffondevano (prima di tutto in città) questi enormi magazzini dove poter comprare di tutto, rapidamente, anche senza dover chiedere nulla a nessuno. Si poteva riempire il carrello con ogni ben di dio, senza troppi scrupoli. Nascono i semipreparati per la cucina, i surgelati, gli alimenti solo da riscaldare: pronto e mangiato. Non a caso le cucine delle case di quegli anni diventano: “Cucinini”, stanzette sempre più piccole. Era sembrato, a un certo punto, che della cucina propriamente detta, quella dove trasformare i prodotti della terra e della stalla con fatica e ingombro, fosse finita.

Nei ristoranti, almeno qui da noi, si trovavano affettati, vol au vent con fonduta, fettine di polenta con un poco di sugo, capricciosa. Maionese e panna montata allagavano tutto. I primi piatti erano quasi sempre ravioli al sugo e cappelletti in brodo. Dopo c’era l’arrosto o le scaloppine, con patate (novelle, anche a febbraio…) e carote. Due vini: rosso o bianco.


Nelle trattorie trovavi minestroni, trippe e umidi in genere. Merluzzi secchi o salati, polli e conigli, magari braciole. Un profluvio di patate al forno. Vino: nero.

I grandi cuochi e i grandi gastronomi hanno messo in dubbio questa costruzione abbastanza consolidata. Hanno ridato nobiltà ai piatti di trattoria, magari sgrassandoli un poco, hanno insegnato che non è un ingrediente di per sé ad essere volgare o indigesto, ma quasi sempre il tipo di preparazione e il contesto che possono fare il servizio più o meno ricercato, più o meno sopraffino.

Dalle nostre parti sono tornati i ravioli “al plin”, curando in modo particolare il ripieno. Anche la polenta è tornata, e proprio nei ristoranti migliori. Ma non è più polenta istantanea, o raffinata, o proveniente da chissà dove. Di quel macinato possiamo sapere tutto: mais otto file, biologico, macinato a pietra, coltivato a venti chilometri da qui. E la differenza, permettetemi, c’è davvero.

I ristoranti di zona propongono sempre meglio e sempre di più i prodotti che si trovano sui mercati locali, cercando quindi di inseguire la stagionalità, la freschezza, il territorio. Scegliere un vino è diventato addirittura complicato: se un avventore non si tiene aggiornato è facile si perda tra le troppe etichette, troppe varietà, troppe vinificazioni. Ma è un imbarazzo di cui essere felici: essere in difficoltà a causa di una grande possibilità di scelta è una buona cosa. I nutrizionisti sono entrati in cucina e raccomandano cosa, come e quanto mangiare. Alla fine di tutto questa sovrastruttura ci sono le immancabili nevrosi legate al cibo: pane senza farina, caffè senza caffeina, bistecca senza carne, acqua senza idrogeno… (ma questo è ancora un altro discorso).

E ora, cosa abbiamo davanti? Cosa ci aspetta nel prossimo futuro della cucina? Or non è molto si è concluso l’Expo a Milano, il cui tema era: “Nutrire il pianeta”. Mi par di capire dunque che il problema sta diventando non solo cosa c’è nel piatto, ma tutto quel che riguarda il contenuto del piatto stesso: prodotti, trasporti, energia, persone, culture, tradizioni.

Per sapere quale cucina ci aspetta può essere utile leggere le interessanti visioni di uno chef famoso, non solo per la sua cucina: Dan Barber.


Ha recentemente pubblicato un libro dal titolo: “La cucina della buona terra. Storie di passione per il cibo” (Bollati Boringhieri 2015).

Per farla molto breve (il libro è da 400 pagine) e prendendo solo quel che mi interessa, Barber sostiene che non si può continuare a fare ristorazione mettendo la terra al servizio del menù (ovvero dello chef). Deve finire il tempo in cui lo chef decide di cucinare questo o quest’altro, a partire da una intuizione, una sensazione, una certa voglia. Una cucina su questo modello è quella che conduce ad avere grandissimi scarti, è quella che fa ritenere buona, di una vacca, solo il filetto, e il resto buono per hamburger. Così il poco filetto buonissimo, sarà venduto a prezzi alti a chi se lo può permettere; il resto, macinato tutto assieme, sarà distribuito a tutti gli altri (questa mia ultima è un’esasperazione del concetto). Per lo stesso motivo non si può pensare di servire solo verdurina fresca di primissima scelta, c’è una stagionalità, ma c’è anche variabilità all’interno dello stesso raccolto. Barber ha elaborato una rivoluzione in questo senso: prima collegando una fattoria al suo ristorante newyorkese, ma anche qui si era accorto che non bastava: in una serata venivano letteralmente bruciate tutte le costine di agnello, divorate in un attimo, a fronte di tutto il tempo e la dedizione che era stata necessaria per produrle. Allora si è arrivati a capovolgere l’idea: nel ristorante di Barber si mangia quello che c’è, quello che la fattoria ha messo a disposizione per quella sera, quel pomeriggio. Resta fissa l’abilità della cucina e degli chef nel preparare piatti speciali con quello che l’unità produttiva a pochi chilometri gli consegna. Resta fissa l’abilità di presentare un piatto, decorarlo, servirlo accompagnato da gli elementi più acconci.

Fatta salva l’alta professionalità del personale di cucina, con tutto il rispetto, è il sistema che usava già la mia (e le vostre) nonne. Abitavamo in povere cascine, con la pertinenza di stalla, pollaio, orto, pozzo, campo e bosco. Per i pasti principali si guardava quel che c’era nella dispensa e si procedeva alla preparazione del pasto. La base principale era la polenta, il condimento era legato alla disponibilità, scarso comunque. Non per niente è piaciuto così tanto il passaggio della famiglia da centro di produzione a centro di consumo, non per niente è piaciuto così tanto consumare, divorare, variare, allevare in noi la fame selettiva.


Il mercato attuale non ammette seconda scelta. Neanche i consumatori, abituati a vedere solo prodotti “di prima qualità”, “controllati e certificati”, “buoni e sani”, “buoni, puliti e giusti”. Al di là degli slogan, però, un albero non produce solo mele perfette. Neanche un pollaio uova sempre tutte uguali. Che ne facciamo delle noci non pulitissime? Dei grappoli d’uva non interamente brillanti? Della farina non “00”?

Mia nonna sapeva usare questi prodotti, non per innata capacità, ma per debita scelta, per povertà, per sobrietà.

Tutto questo per dire che la ristorazione che ci aspetta, quella basata appunto sul prodotto disponibile, sarà una grande rivoluzione, ma paradossale, perché non generata da una scelta etica (le religioni in genere condannano il peccato di gola) o obbligatoria per motivi di povertà; ma piuttosto figlia di una moda, o peggio da un senso di colpa, dal “sostenibile”, dal “locale”, dal “biologico”, ma sempre per pochissimi, e sempre meno.

La questione profonda, irrisolta, è sempre la stessa: alla base della nostra alimentazione stanno i cereali. La produttività dei quali ha raggiunto il suo limite: più di tanto, per ettaro, è difficile cavarne. La popolazione mondiale è in continuo aumento. Cosa mangeranno le nuove generazioni? Soprattutto, a che prezzo?

Mi pare che l’Expo non abbia dato risposte, a riguardo. Io non so cosa proporre, se non che bisognerebbe salvare ogni metro di terra fertile e di acqua pulita, qui intorno a noi, a casa nostra, ognuno per sé. Per avere un posto, domani, dove coltivare il cereale che alle nuove generazioni servirà per vivere, o almeno a non dipendere da un mercato sempre più anarchico. E questa congettura, a guardar bene, si sposa perfettamente con la visione alta e professionale di Barber. E se buon senso atavico, razionalità e professionalità sono d’accordo vorrà pure dire qualcosa. Manca solo la politica, da cui continuo a non aspettarmi nulla.

 Alessandro Marenco

 

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