La Caduta inevitabile
La Caduta inevitabile
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La Caduta inevitabile |
Dopo il peccato originale ( il quale, per inciso, è stato così denominato da Agostino d’ Ippona e non è quindi un nome desunto dalla Bibbia ), Adamo ed Eva vengono condannati a morte.
Cosa devono aver capito nel mentre Jahvé li sentenziava, è difficile dire.
Non conoscevano la morte. Nessuno era mai morto prima di loro. Non ne avevano visto i prodromi nella malattia; non ne avevano sentito il rantolo; e, poi, non ne avevano, stupìti, spiato l’immobilità.
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Loro erano il primo uomo e la prima donna. E conoscevano solo la vita. Anzi. Neanche quella. Perché la vita prende sostanza di coscienza solo di fronte alla morte.
Erano, insomma, degli esseri del tutto presenti a se stessi. Del tutto presenti nel senso di necessariamente senza passato e senza futuro.
Meglio di come stavano non potevano stare, e se avessero dovuto raccontare a qualcuno qualcosa del loro passato, che normalmente bisognerebbe poter distinguere almeno in passato remoto e passato prossimo, avrebbero tentato di dire che era filato tutto in modo perfetto come perfetto era il loro presente.
Mancando però del concetto di imperfezione, alla fine sarebbero rimasti muti. Il prima e il dopo per loro si sarebbero mescolati omogeneizzandosi in virtù di una perfezione che avrebbe squalificato ogni possibile idea di tempo. Ovviamente questa prima squalifica ne comporta una seconda: quella della speranza. Chi ha tutto il meglio non può sperare. E chi non può sperare, non ha futuro.
Da tutto ciò si desume che i nostri protogenitori non potevano sapere a quale condanna erano stati condannati. Non potevano sapere a che cosa andavano incontro.
A meno che non fosse loro occorso di veder morire gli animali.
La Bibbia non dice se nell’Eden gli animali morivano. Certo che se morivano, un minimo di turbamento, di compassione, di angoscia per esseri il cui respiro improvvisamente aveva smesso di uscire dalle nari e dalle bocche, per quella rigidità e quel progressivo disfacimento dei corpi, i protogenitori avrebbero dovuto provarli. Epperò se li avessero provati, la loro felicità si sarebbe incrinata, e il loro non sarebbe più stato un paradiso.
Insomma, per essere beati dovevano contestualmente essere ebeti. E qualsiasi cosa, bella o brutta, fosse accaduta a qualsiasi cosa, animata o meno, sarebbero rimasti indifferenti. Non avrebbero potuto soffrire, certo. E neppure gioire, perché quella che avevano era già il massimo della felicità.
Perciò non si capisce in che modo abbiano potuto comprendere il danno che si erano procurati mangiando dell’albero.
Non importa. Restiamo alla Bibbia e prendiamo atto che hanno in qualche modo compreso.
Ora sanno di essere morituri. Vorrebbero rientrare in quel paradiso da cui sono stati scacciati. Ma vi è un angelo a guardia dell’ingresso che non lo consente.
Si disperano…Hanno dei figli, e questi altri figli, e questi altri ancora. Una sequela di generazioni che giunge fino a noi.
Ma nel frattempo, qualcosa è successo: s’è aperta il varco un’idea che dona un minimo di consolazione: la conoscenza che porta con sé conseguenze nefaste, è anche ciò che permette di capire, se non si è distratti, come la vicenda di Adamo ed Eva fosse ineludibile e ancora lo sia per ogni uomo e ogni donna; cioè per ogni bambino che diventando adulto, perde il suo paradiso.
Se ne rammarica fino ed oltre le lacrime, ma sa anche che non avrebbe potuto fare diversamente, come diversamente non può fare colui che su un muro vedesse scritto: “Non leggere queste parole”.
Fulvio Baldoino
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