La buridda che ribolle: ricetta, memoria e quel che resta quando la politica prende fuoco
La buridda che ribolle: ricetta, memoria e quel che resta quando la politica prende fuoco
La buridda — e qui parliamo della buridda ligure, non di qualche zuppa metagnomica alla moda — è un rito domestico che odora di mare, di vecchie reti appese al sole e di pane tostato che fa la spugna delle parole non dette. È una zuppa di pesce (o meglio: un insieme coerente di cose marine) dove il pesce bianco di scoglio regna sovrano — gallinella, triglia, qualche scorfano, a volte merluzzo per necessità — tagliato a pezzi generosi; si aggiungono cipolla o scalogno, aglio appena sussurrato, prezzemolo, un bicchiere di vino bianco, poche patate se si vuole, e il rito più importante: il lento sobbollire in pentola, con una spruzzata di aceto o limone per tagliare la mollezza, e il pane abbrustolito che fa da zattera su cui galleggiano i pezzi. Nella vera buridda non ci sono fronzoli: niente panna, niente brodo di dado. È un lavoro di equilibrio, di rispetto per gli ingredienti, di pazienza — il tempo giusto perché i sapori si parlino senza imporsi. Alla fine la si serve fumante, con un filo d’olio crudo a coronare: sapore semplice, efficace, e una persistenza che resta sul palato come la memoria sulla pelle.

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Prendere la buridda come lente interpretativa dei fatti pubblici è facile quanto pare assurdo — eppure, se ci pensate, la politica di un paese è spesso una pentola in cui si mette dentro troppo, si mescola male e si pretende di servire a tutti un piatto che non è per nulla omnicomprensivo. E allora, via col cucchiaio: guardiamo quella grande marea umana nelle piazze — la massa che torna alla fisicità della protesta — con gli occhi di chi sa fare la zuppa.
Ingredienti: troppa roba insieme.
In una buridda onesta, ogni elemento ha il suo momento: il pesce più delicato va aggiunto dopo, la triglia richiede rispetto, la cipolla non deve dominare. Nella politica italiana di questi giorni vediamo invece che si gettano in pentola conflitti antichi e recenti, narrazioni di solidarietà distanti (la tragedia di Gaza), questioni domestiche (salari, casa, sanità), memorie storiche che bruciano come alghe secche e risentimenti che galleggiano come lische. Il problema non è la quantità — le pentole grandi servono — è la mancanza di ordine: chi mescola mette prima le patate e poi pretende che il brodetto abbia lo stesso sapore della zuppa dei nonni. Il risultato? Un guazzabuglio indistinto che non convince né gli stomaci né le coscienze.
Sobbollire senza decidere: il vizio del Governo.
La buridda richiede calore costante ma deciso; non si può tenerla né a fiamma spenta né a bollore furioso se si vuole che i sapori si armonizzino. Ecco dunque la metafora perfetta per l’azione governativa: una politica che “traccheggia”, che attende, che bada a non schierarsi in modo netto. Questo è il lento sobbollire che non sblocca nulla: i sapori non si amalgamano, le domande restano crude e il popolo — che per metafora è il pane tostato in attesa — arriva in piazza perché la pentola non dà risposte.
La marea umana: pane che assorbe o fiamma che scoppia?
Il pane nella buridda è la memoria: assorbe, unisce, smorza l’acidità quando serve. Ma se il pane è troppo bagnato diventa molle e cade a pezzi. Le folle che scendono in piazza sono come fette di pane che cercano di assorbire dolore, indignazione, speranze. Sono un elemento che può addensare il brodo della democrazia, oppure — se mal gestito — sfaldarsi e generare solo confusione. E qui entra la paura: la storia insegna che le folle, anche pacifiche, spesso fanno paura a tutti: alla maggioranza, all’opposizione, ai buoni pensatori e ai sedicenti moderati. Ma la buridda ben fatta non teme la folla: la invita a sedersi e la sfama. Il problema è che chi sta ai fornelli preferisce spesso chiudere la porta della cucina.
Aceto e limone: la verità che sgrassa.
Nella ricetta, un’acidità misurata salva il piatto dalla pigrizia dei sapori. Nella retorica nazionale servirebbe più acume, più verità che rompa gli equivoci. Dichiararsi non è alimentare il conflitto per il gusto di farlo; è dare quella nota che distingue il pesce dalla zuppa riscaldata. In diverse prese di posizione pubbliche appare il cortocircuito: la compassione per una tragedia umanitaria e insieme la tentazione di piegare strumentalmente quella compassione a equilibri geopolitici o a calcoli domestici. L’acidità morale manca: si tiene tutto in sospeso per non irritare nessuno, e il risultato è un brodetto insipido.
Le ossa che restano: la memoria storica e la retorica degli anni Settanta.
La buridda lascia qualche lisca; la si toglie e si ricorda. Anche la politica italiana si porta dietro lische che risalgono ai tempi delle tensioni, degli anni Settanta, e persino a frasi di provata ferocia retorica. La massa che torna in piazza risveglia memorie — giuste paure — e chi cucina non sembra voler guardare in faccia la storicità degli ingredienti. Si continua a temere la tigre che si cavalca, a ricordare la folla femmina che ama essere “fottuta” (quanto mai orribile la frase citata), ma si dimentica che se non si gestisce con rispetto la materia prima, qualcuno finirà per scottarsi.
Il condimento ipocrita: olio a crudo e tante parole.
Infine, l’olio crudo che corona la buridda è come la retorica che i leader amano stendere a coprire i difetti: parole di circostanza, mediate, studiate per non urtare. Un filo d’olio bene dosato può esaltare; un’inondazione lo rovina. È questa la critica più pungente: la politica che si limita a frasi, suggerimenti, richiami generici, e non a scelte nette. Il popolo chiede forse poco — dignità economica, case, servizi — ma pretende coerenza, e soprattutto non vuole essere usato come guarnizione di lucida ambiguità.
Conclusione — come si serve la buridda di un paese?
Si serve con onestà: si puliscono le lische, si cuoce al punto giusto, si aggiunge l’acidità quando serve, e si lascia che il pane faccia il suo mestiere. Se la politica italiana volesse davvero usare la buridda come paradigma, dovrebbe imparare l’arte della misura e l’umiltà del cuoco: riconoscere gli ingredienti, non nasconderli sotto salse, scegliere il tempo di cottura e poi sostenere chi mangia. Oppure continuare a mescolare, tenere la fiamma incerta e poi stupirsi se la gente, stupefatta, prende il suo pezzo di pane e va a cercare ristoro — in piazza, nella storia, o altrove.
E se tutto questo suona come un invito alla rivoluzione gastronomica anziché alla rivoluzione politica, pazienza: almeno a tavola sapremo cosa mettere dentro.
