Jannis Kounellis o la pesantezza dell’arte

JANNIS KOUNELLIS
O LA PESANTEZZA DELL’ARTE

 

JANNIS KOUNELLIS O LA PESANTEZZA DELL’ARTE

 Era nato in Grecia, al Pireo, il 23 marzo del 1936 ed è morto a Roma lo scorso 16 febbraio. La sua è stata una vita d’artista nel senso pieno dell’espressione, sarà ricordato come un protagonista (malgrado le stroncature e gli anatemi di Vittorio Sgarbi) della storia dell’arte italiana contemporanea. Temperamento estroso e insofferente alle regole e alla convenzioni, a vent’anni, respinto dall’ Accademia di Belle Arti di Atene, Jannis Kounellis si traferisce a Roma per continuare i suoi studi presso l’Accademia  romana in via Ripetta, dove ebbe come maestro Toti Scialoja.

 

Erano gli anni in cui si discuteva di espressionismo astratto, informale,  arte concreta, art brut, ecc., Kounellis esordisce in modo originalissimo nel 1960, alla Galleria La Tartaruga, con una mostra intitolata Alfabeti , in cui espone opere composte da caratteri tipografici, cifre, frecce e simboli vari, per lo più neri, su fondo bianco; lettere che saranno trasformate in fonemi cantati dall’artista alla presenza dei visitatori trasformati in spettatori di un inatteso e nuovo spettacolo teatrale. Negli anni Sessanta abbandona decisamente le tecniche tradizionali e comincia ad adoperare materiali grezzi, inerti od organici, come legno, cera, piombo, sacchi di iuta pieni di carbone, granaglie, pietre, fiori secchi, semi di caffè, di modo che verrà naturale la sua adesione al movimento della cosiddetta “Arte povera” , così denominata dal critico genovese Germano Celant, che desunse il termine dal teatro del regista d’avanguardia polacco Jerzy Grotowski.  Perché povera? Perché consiste nel “ridurre ai minimi termini, nell’impoverire i segni per ridurli ai loro archetipi”. Di qui opere come La Venere degli stracci di Michelangelo Pistoletto o Mai alzato pietra su pietra di Mario Merz, installazione formata da tubi di metallo, rete metallica, pietre e tubi al neon, o Piedi, in vetro e seta, di Luciano Fabro.

 

Kounellis si spinge oltre: dalla Margherita di fuoco, da azionare come una fiamma ossidrica, al quadro con un pappagallo vivo sul trespolo (del 1967) all’ installazione vivente in cui dodici cavalli veri sono legati alle pareti della galleria romana L’Attico di Fabio Sargentini (del 1969). Sono gli anni in cui l’arte povera diviene di moda e Kounellis espone con successo in Italia e all’estero: dall’Attico di Roma alla Christian Stein di Torino alla Sonnabend di New York. Tuttavia in seguito subentra nell’artista (che continua comunque a definirsi pittore) una sorta di disincanto nel constatare che anche le inusitate e provocatorie composizioni dell’arte povera divengono inopinatamente merce spendibile e acquistabile sul mercato globale e trovano collocazione nei luoghi classici destinati alle opere d’arte: le gallerie e i musei. Da questo disincanto nasce il celebre portone chiuso con delle pietre, esposto in una prima versione a San Benedetto del Tronto e poi, con aggiunte varie, a Roma, a Baden Baden, a Londra, a Colonia. Il 1972 è anche l’anno della sua partecipazione alla biennale veneziana. Una caratteristica di Kounellis è sempre stata la volontà di aprirsi e dialogare con il pubblico; non per niente considera le sue opere scenografie aperte all’interazione con gli spettatori: come l’artista entra ed  esce, per così dire, dalla sua opera, anche lo spettatore è chiamato a entrare e a uscire dalle sue composizioni (si pensi solo alle scarpe o ai capi di abbigliamento sparsi sul pavimento o intrappolati sotto le rotaie, come nell’installazione alla Stazione Dante della metropolitana di Napoli).

 

L’ultimo Kounellis è irresistibilmente attratto, più che dagli animali vivi o imbalsamati o dai quarti di bue esposti che obbligano lo spettatore a riflettere sul rapporto che intrattiene con la natura, dalle tracce della presenza (o dell’assenza) umana, come nelle file di cappotti lasciati sul pavimento della fabbrica dismessa di cioccolato Red October a Mosca e in una sala del Castello di Rivoli. A una domanda sulla crisi morale e materiale dell’epoca in cui viviamo, Kounellis ha risposta così: “Io penso che l’errore sia di prendere troppo sul serio il progresso. Il problema sta nella nostra ipocrisia, nei nostri interessi.

 

 

La gente non ha bisogno di certi cambiamenti, e avverte certe necessità solo perché indotta. Non si può chiedere a un abitante dell’Amazzonia di essere come un cittadino di New York che gioca in borsa. E’ la nostra violenza che produce questi effetti. E la globalizzazione è lo strumento estremo di tale pratica. Rende tutti uguali: apparentemente, però. E, in fin dei conti, è una bolla di sapone”. In un’intervista uscita su La Repubblica lo scorso luglio, Kounellis ha definito se stesso come “Un vecchio Ulisse senza Itaca innamorato della pesantezza dell’arte”. E difatti la sua non è un’arte facile o graziosa, i materiali di cui è contesta richiamano la fatica, il duro lavoro dell’uomo e la sua eterna lotta contro una natura ostile. E tuttavia la pesantezza della materia non può soffocare la levità della poesia né la libertà dell’artista, che agisce anche nel sonno: “La libertà è anche onirica. La immagini. Ne sei attratto. Ti mette in movimento. E’ un sogno che non finisce. Dunque bisogna essere sempre per la libertà. Perché ti aiuta a sognare. E questo è indispensabile per chi fa il mio mestiere”. Il mestiere di poeta: muore il poeta ma non la poesia.

Fulvio Sguerso

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