ITALIA Un Paese in declino: I responsabili

ITALIA Un Paese in declino:

I responsabili

ITALIA Un Paese in declino: I responsabili

 Non sono un economista, tuttavia il fatto di aver sostenuto qualche esame di economia da studente lavoratore alla facoltà di Scienze Politiche mentre, per lavoro, giravo il mondo e mi guardavo intorno, credo sia stato il viatico – unitamente ad un forte interesse che ho sempre nutrito per la materia – attraverso il quale ho acquisito una forma mentis che mi porta immancabilmente a tentare di capirne i meccanismi, un’attitudine che tanti saccenti che ci governano, se pur provvisti di titoli roboanti, non hanno o dimostrano di non  avere.

 

Devo iniziare dagli anni della mia fanciullezza, quando l’Italia iniziava a ricostruire la propria economia a partire dalle macerie lasciate da un regime scellerato che, senza essere minimamente preparati, ci aveva coinvolti in una guerra assurda, la cui conclusione non poteva che essere una sconfitta totale sia sul piano materiale che dal punto di vista morale.

 


 

Un’enorme fortuna del nostro Paese nel periodo immediatamente postbellico fu quella di avere avuto Alcide De Gasperi a capo del Governo, un uomo politico dotato di grande visione strategica e schietta onestà intellettuale che, con poche e semplici parole, fu capace di spronare gli italiani a lavorare sodo per ricostruire il Paese, dicendo loro “Noi politici non vi possiamo dare niente e non vogliamo niente, fate voi, noi non vi disturberemo.”

Gli Italiani, specialmente quelli del Nord, presero sul serio le esortazioni di De Gasperi e  in meno di 30 anni trasformarono un Paese di tradizione economica prevalentemente agricola nella settima potenza economica mondiale, al punto che alla fine degli anni ’60 il Financial Times assegnava il premio Oscar Finanziario alla Lira Italiana, a conferma della fiducia dei banchieri internazionali e degli operatori mondiali verso il nostro Paese, che  attestava come la nostra moneta fosse una delle più forti al mondo.

 


 

Nell’Italia che progrediva a vista d’occhio, fin dai primi anni ’50 si cominciava a distribuire benessere ai lavoratori, via via rappresentato dalla Vespa, dalla mitica 500, dall’aperitivo domenicale al bar, dalle prime vacanze al mare o in montagna. Ma nella gaia spensieratezza di un costante sviluppo dell’economia, iniziava a diffondersi purtroppo una grande iattura: la piovra del dirigismo di vocazione intellettuale di sinistra.

Trent’anni di lavoro e produzione spontanea avevano portato piena occupazione e un benessere mai visto prima, con le casse pensionistiche delle varie categorie stracolme di denari. Una situazione tanto rosea non poteva che essere una ghiotta preda da assaltare da parte di quei politici e professoroni che, dall’alto della propria saccenteria, si sarebbero precipitati ad insegnare al popolo come fare a gestire quell’immenso  patrimonio nazionale, che era appena stato creato dal nulla e proprio dal popolo stesso.

 

 

 

E così, con l’inizio degli anni ’70 si cominciò ad elargire pensioni ai quarantenni, con la scusa di dare lavoro ai ventenni; si iniziò a pensare di creare occupazione assumendo eserciti di giovani e vecchi nel pubblico impiego, specialmente nel Sud Italia; nei porti italiani un “camallo” andava a scaricare la merce e due erano pagati perché, dicevano, “intanto paga la merce”. Si elargirono soldi a pioggia per operazioni industriali fasulle; si resero pubbliche aziende private per impiegarvi clientele politiche e, lungo questa dannata strada, l’Italia arrivava alla fine degli anni ’80 con un rapporto Debito / PIL pari al 110%, quando negli anni ’60 si era attestato attorno al 30%. In trent’anni di dirigismo, tanto caro alla sinistra, il rapporto Debito / Pil si era quasi quadruplicato.

Comunque, pur regalando salari a chi non produceva nulla – una sorta di reddito di cittadinanza ante litteram – questi soldi sprecati venivano usati per acquistare per beni e servizi prodotti in Italia, quindi i soldi spesi nel Sud assistito creavano produzione e occupazione all’economia del Nord.

Il meccanismo era che, tanto per fare un esempio, l’assistito del sud comprava la Fiat prodotta al Nord, quindi si era creato un vero e proprio meccanismo circolare, che aveva solo il difetto di vedere da una parte chi lavorava e dall’altra chi viveva sul lavoro altrui godendosi O’ sole mio.

Tuttavia, pur se moralmente ingiusto, questo ciclo anomalo di produzione e consumo aveva i suoi vantaggi e non nuoceva all’economia nazionale più di tanto, almeno fino a quando ciò che veniva consumato dai soggetti improduttivi non eccedeva il reddito prodotto dagli altri.

 

 

 

A quei tempi, avendo la possibilità di stampare moneta, lo Stato poteva  altresì elargire le sue mance senza aumentare le  tasse, e anche se ciò creava inflazione e conseguente svalutazione della nostra Lira, le esportazioni se ne avvantaggiavano e con esse si recuperava valuta forte, necessaria a sua volta per importare materie prime da trasformare in manufatti da esportare. Insomma, pur con qualche effetto collaterale, il ciclo economico anomalo del nostro Paese ha prodotto benessere per un trentennio – dai primi anni ’70 alla fine degli anni ’90.

In verità, nel corso di quegli anni il sistema economico italiano era diventato sempre meno sostenibile; a partire dagli anni ’80, con l’inaugurazione della “concertazione” i sindacati, braccio armato della sinistra, iniziano ad entrare a far parte del blocco di potere e quindi, in pratica, a gestire la cosa pubblica insieme al  Governo; ed è proprio negli anni ’80 che il debito pubblico inizia la sua folle corsa.  

 


 

A interrompere il meccanismo di economia circolare testé richiamato interviene, il 15 Aprile 1994, un bel numero di “buontemponi” riuniti a Marrakesh, i quali sottoscrivono un accordo da cui  nasce il WTO (Word Trade Organisation), col quale si gettano le basi per l’abolizione di tutte le barriere doganali e l’apertura delle frontiere alle merci di tutti gli Stati aderenti; l’Italia, forte di una tradizione esportatrice, aderiva al WTO senza battere ciglio.

Ma che cosa comporta l’adesione a questo nuovo organismo sovranazionale? In poche e semplici  parole, da ora in poi il baby pensionato, l’assistito del Sud, il netturbino in organico con il male di schiena cronico, insomma la sconfinata platea dei nullafacenti beneficiati dal Welfare sociale e clientelare non avrebbe più comprato Fiat, ma Toyota e Nissan, semplicemente perché senza barriere doganali i prodotti provenienti dai Paesi con welfare ridotto, maggiore efficienza del lavoro e del capitale e senza troppi problemi ambientali, costano meno; e ciò che vale per le automobili vale anche per i pannolini, la carta igienica, lo spazzolino da denti … e le mascherine chirurgiche. Insomma, i cinesi e i giapponesi che producono già in Cina iniziano ad invadere i mercati mondiali con le loro merci.

 


 

E come se non bastasse, senza barriere doganali anche gli imprenditori italiani possono delocalizzare in quei Paesi dove riescono a produrre a basso costo per poi trasferire in Italia e in Europa quelle stesse merci che prima erano prodotte in loco, qui da noi. Lo shock introdotto dall’accordo del  WTO interrompe così la circolarità della nostra economia che, pur coi suoi difetti, fino a quel momento era riuscita a mantenere l’equilibrio dei propri conti entro limiti sopportabili.

L’emergenza di questo nuovo paradigma economico mondiale stimola la ricerca di soluzioni industriali più di nicchia e di maggior valore aggiunto, specialmente da parte delle  piccole e medie aziende manifatturiere, perché dotate di maggior flessibilità, ma mette fuori mercato le vecchie decotte grandi industrie che fino a quel momento si erano rette grazie alla protezione doganale di cui i loro prodotti avevano goduto, e che adesso si vedevano costrette a licenziare in massa i lavoratori.

Purtroppo la diminuzione dell’occupazione causava ulteriori costi sociali per mantenere  i nuovi disoccupati, i quali andavano ad aggiungersi a quel gigantesco apparato mangiasoldi di lavori fasulli creato quando le cose andavano bene, per cui a un certo punto il ricorso alla leva fiscale è diventato giocoforza inevitabile, e così le tasse in quegli anni iniziarono a salire di pari passo col debito pubblico, alimentato dall’emissione sempre più massiccia di Titoli di Stato con tassi di interesse sempre più alti.

L’imponente emissione di Titoli del Debito Pubblico alimentava la svalutazione della lira che spesso superava il 6% della banda di fluttuazione che era stata stabilita sui cambi fissati dal Sistema Monetario Europeo, creato nel 1979 e a cui avevano aderito i principali Stati Europei eccetto la Gran Bretagna. In quel periodo, partito dalle 200 Lire dei primi anni ’70 il cambio del Marco Tedesco raggiunge il picco di 1.200 Lire. Tuttavia la politica monetaria espansiva dell’Italia aiutava ad esportare i nostri prodotti specialmente in Germania e Francia le cui economie, basate su grandi industrie e anch’esse afflitte dalla caduta delle barriere doganali, mal competevano con le piccole medie aziende della Padania che, per la loro flessibilità, si erano adattate  più facilmente alle nuove esigenze dei mercati, specialmente in quello metalmeccanico in concorrenza con la Germania, e in quello tessile nei confronti della Francia.

 


 

A quei tempi si diceva che per ogni automobile Volkswagen importata in Italia otto Fiat venivano esportate in Germania, mentre per ogni Renault che entrava in Italia tre nuove Fiat entravano nel mercato della Francia, e così pure nel tessile e nell’agricoltura – il così detto petrolio francese. Insomma,  per la Germania e la Francia bisognava ingabbiare l’Italia, e durante l’incontro di Napoli tra Chirac e Romano Prodi nell’ottobre del 1996, il Presidente francese ottiene l’obbedisco dell’allora nostro Presidente del Consiglio, il quale guarda caso diventerà dopo due anni Presidente della Commissione Europea – a pensare male degli altri si fa peccato ma spesso ci si indovina;  Andreotti docet.

Poco prima di quell’incontro, Chirac arringava la platea dei produttori francesi del tessile con queste parole: “Le fluttuazioni monetarie che conosciamo in Europa non sono accettabili e sono all’origine dell’essenziale delle nostre difficoltà. Contrariamente a quello che molti pensano, non sono le iniziative del Sud-Est asiatico ad essere inquietanti per la produzione francese nel tessile, è la lira italiana. Questa situazione giustifica la nostra determinazione a introdurre la moneta unica e a stabilire regole del gioco precise per imporre a tutti i paesi europei, dentro o fuori l’ euro, una disciplina monetaria.” – v. La Repubblica, 01/10/1996.

 

 

Ed è stato proprio così! L’Italia ingabbiata nell’Euro non avrà  più crescita economica né aumento di reddito pro-capite, mentre la Germania, la Francia e gli altri Paesi del Nord, non avendo né la zavorra sociale dell’Italia da mantenere né gli interessi da pagare sull’enorme debito pubblico da essa causato, potranno investire nella ricerca, nelle nuove tecnologie e nelle infrastrutture, migliorando notevolmente la loro produttività, mentre le aziende italiane per contro pagheranno  maggiori tasse e sconteranno la mancanza di infrastrutture; ma sopratutto dovranno pagare il prezzo imposto dall’immenso problema della burocrazia, diretta derivazione delle politiche clientelari sopra menzionate. Insomma, un insieme di concause che da allora hanno tarpato le ali alla nostra economia, ora ingabbiata nella moneta unica, e che hanno avuto l’effetto di impoverire tutti noi: una guerra impari come quella voluta a suo tempo da Mussolini!

 

 

Chirac, Merkel e Prodi

 

 Le conseguenze le vedremo nella prossima parte, dove proverò a spiegare perché dal 2002, con la nascita dell’Euro, in media ogni tedesco ha goduto di un aumento cumulato di reddito pari a 26.000 euro mentre ciascun italiano ha sofferto una riduzione cumulata del proprio reddito di 75.000 euro.  

Nella terza e ultima parte, cercherò di mostrare se e come sarà possibile, a mio parere, evitare che ciò che non è riuscito a realizzare Hitler con la forza degli armamenti militari, possa riuscire oggi ai tecnocrati e banchieri  tedeschi con le armi  dell’economia e della finanza.

SILVIO ROSSI  Consigliere LEGA NORD 

 

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