Israele e il genocidio dell’informazione
Secondo Israele, l’ultimo Rapporto stilato da Amnesty International che lo indica come fautore di un genocidio a danno dei gazawi, è “prefabbricato”, “completamente falso”, e costituito da “bugie di fanatici”.
Ma in base a cosa Israele può giustificare la sua reazione?
Se si limitasse a discutere della non conformità di quanto viene accusato con il dettato dell’ ONU relativo alla definizione di genocidio, si tratterebbe di una contestazione che dovrebbe confrontarsi con i fatti accaduti nella Striscia, con la loro modalità, la loro frequenza, la loro estensione etc.
Ma è una contestazione che può essere fatta solo se ci sono le condizioni per farla.
E non ci sono.
In altre parole Israele che rifiuta ed anzi si adonta e scandalizza di essere indicato come uno Stato che sta mettendo in atto un genocidio, non ha il diritto morale di farlo non perché non abbia il diritto di confrontarsi con le considerazioni, i reperti, le testimonianze e, insomma, i vari dati a suo carico in quanto ritenuti insufficienti, o di parte, o preconfezionati etc., ma perché di quegli stessi dati ha sempre in tutti i modi cercato, senza evidentemente riuscirvi del tutto, di impedirne l’acquisizione.
Questo spiega perché la presenza di Amnesty non è mai stata gradita a Gaza, neanche prima del 7 ottobre ’23, e i giornalisti stranieri non sono stati fatti entrare dall’inizio delle ostilità ( tranne quelli embedded, selezionati dallo stesso Israele ), mentre sulle emittenti nazionali non vengono mostrate né le immagini della distruzione delle abitazioni e delle infrastrutture di Gaza, né dei cadaveri provocati dai bombardamenti.
A ciò si aggiunga un fatto importantissimo, ovvero che chiunque dallo stesso Israele, ebreo o di altre minoranze delle tante che compongono il tessuto della nazione ( Circassa, Palestinese, Maronita, Beduina, Drusa etc. ) osi fornire notizie o avanzi critiche non gradite al governo, viene duramente attaccato e in vari modi punito.
Tra i mass-media è il caso di Haaretz, una delle pochissime voci critiche che ancora hanno la forza e il coraggio di alzarsi in Israele, perché l’altra, al-Jazeera, è già stata costretta nel maggio scorso a chiudere gli uffici, dopo che militari governativi vi avevano fatto irruzione per sequestrare macchinari e software.
Infatti il 24 novembre scorso all’unanimità il Consiglio dei Ministri israeliano, adducendo a pretesto una dichiarazione di Amos Schocken, un editore di Haaretz, secondo cui quello di Netanyahu sui palestinesi sarebbe un regime di apartheid, ha votato per iniziativa del ministro delle Comunicazioni Shlomo Karhi una risoluzione inserita all’ultimo momento senza prima essere legalmente vagliata e senza che fosse presente in agenda di discussione settimanale, che ha vietato al suddetto quotidiano di inserire pubblicità e di ricevere finanziamenti e che lo obbliga a bloccare tutti gli abbonamenti sottoscritti da funzionari e amministrativi, al fine di strozzarlo economicamente.
Il Committee to Protect Journalist per bocca della sua direttrice generale ha dichiarato che “Il crescente dispiegamento di restrizioni sui media critici da parte di Israele è un’ulteriore inquietante prova dei suoi sforzi per impedire la copertura delle sue azioni a Gaza”
Tra i privati cittadini le difficoltà e i rischi sono persino maggiori. Esprimere una propria opinione può costare carissimo.
Oltre all’intervento della censura del governo che può incriminare il soggetto, ne va di mezzo l’incolumità fisica dello stesso e persino della sua famiglia.
Un caso emblematico è quello occorso all’accademico Refaat Al-Areer, editore, poeta, scrittore di racconti su Gaza, nonché co-fondatore del progetto We Are Not Numbers atto a incoraggiare i giovani gazawi a far conoscere le loro storie al mondo, il quale dopo aver ricevuto minacce di morte, dinieghi alla richiesta di potersi allontanare dalla Striscia a fini di studio e di docenza, soprusi ed intimidazioni, ed avere però continuato a denunciare la situazione in cui versa la sua terra, non potendo essere fatto tacere in altro modo è stato ucciso con un attacco aereo, ordinato nonostante egli si trovasse ospite a casa di sua sorella.
L’esito è stato, oltre la sua morte, anche quella di suo fratello, di sua sorella e dei quattro figli di lei.
Ecco, Israele, come tutti coloro che vengono accusati di qualcosa, persone o istituzioni, ha ovviamente il diritto di difendersi.
Ma lo perde se pretende più prove nel mentre fa di tutto per impedire che se ne raccolgano.
Cosa che diventa essa stessa una prova: le richieste di accreditamento dei giornalisti, fotoreporter e cineoperatori respinte dal governo hanno di necessità una data e una firma.