Intolleranti

Intolleranti
Un’amica, conoscendomi come saputello e curioso di faccende da panettieri, mi chiede quale grano sia più adatto per lei che è intollerante al glutine.

intolleranti

 Un’amica, conoscendomi come saputello e curioso di faccende da panettieri, mi chiede quale grano sia più adatto per lei che è intollerante al glutine.

Ho detto: nessuno. Sono stato un po’ brusco, lo so. Ma tutto sommato non ci sono molte risposte: se uno è intollerante non deve mangiare cereali e derivati che contengono il glutine o la loro fonte (ovvero glutenina e gliadina). Anziché grano, segale, avena, meglio mangiare riso, mais, manioca e patata (questi ultimi due non sono cereali).


L’amica mi è parsa contrariata. Non sapevo io forse che c’è anche il pane per celiaci? E dunque adatto anche per gli intolleranti? Si, lo sapevo, ma ho la presunzione di sapere che si può anche progettare un modo di mangiare quotidiano senza dover ricorrere a prodotti di non facile approvvigionamento. Patate e mais sono dappertutto, e ci si può nutrire bene con questi sostanze.

Non contenta, mi ha spiegato che esiste un’azienda da qualche parte, che produce pane in modo naturale, con lievito madre, ricorrendo a farine di altissima qualità macinate a pietra, provenienti da grani antichi e tradizionali a basso tenore di glutine. Che ne pensavo?

Allora ho tagliato, dicendo che se le piace e si trova bene, allora fa bene a mangiare quel tale pane così prezioso, biologico, antico, naturale ed evidentemente purissimo. Devo dire che c’è un po’ di confusione tra il pregio naturale di un prodotto e la sua caratteristica nutrizionale: il grano antico coltivato biologicamente contiene un po’ meno glutine del grano moderno, ma ne contiene comunque, e quindi per un intollerante la questione non cambia dato che si è intolleranti ad una proteina e non tanto al metodo di coltivazione o di coltura per ottenerla.

Pane senza glutine

Ho continuato a pensare a tutto questo, anche perché capita ormai continuamente di aver a che fare con persone intolleranti a qualsiasi cosa: al glutine, al caffè, al latte, al formaggio, all’alcool, al fumo di sigaretta, all’aglio, alle banane, ai farmaci, agli acari, agli abiti sintetici, a quelli naturali, alla razionalità, al fascismo, al comunismo, alla religione, all’indifferenza, alla partecipazione…

Credo che l’intolleranza sarà un tratto distintivo di questi primi anni del nuovo millennio (perlomeno in questa parte di mondo).

“Intolleranza” deriva di fatto da “tolleranza”. Questa parola ha molteplici significati. Intanto deriva da portare o meglio sopportare.

Nella tecnica meccanica, si chiama tolleranza lo spazio micrometrico che occorre lasciare tra due pezzi accoppiabili, che per consuetudine si chiamano perno e foro. Il perno deve essere leggermente più piccolo del foro nel quale deve entrare. Se le due misure sono uguali (è pure improbabile che due misure sia effettivamente uguali), nessuno riuscirà a inserire il perno (a meno che non usino artifici). Il contrario della tolleranza, in questo caso, prende il nome di interferenza, e vuol dire, in sintesi, che il foro è più piccolo del perno.

Non so quanti lettori si sono salvati fino a questo punto, scoraggiati da questioni tecniche. Si stanno chiedendo: perché costui ci molesta con giochi e incastri? Momento, un po’ di pazienza che ci arriviamo.


Nel cibo, nelle terapie, nelle conoscenze e nelle idee non abbiamo mai avuto bisogno della tolleranza e dell’intolleranza. Per questi quarantamila anni di storia umana, si è mangiato quel che si aveva in pentola, ci si curava con quel che ci si poteva permettere, si dormiva nelle foglie o negli stracci, immersi nel fumo. Gli strati bassi della società erano disponibilissimi a cambiare idea a riguardo della fede, della ragione, alla religione. In tutte le esperienze umane era albergata l’interferenza: si era fondamentalmente cristiani, ma si ammettevano riti e usanze ancestrali, derivate da culti più antichi del cristianesimo. Si mangiava di tutto, ma si ammettevano regole morali molto rigide sui tempi della quaresima, o di consuetudine come il Natale. La cura poteva essere d’erbe o di riti, e una nuova cura era sempre ben accetta, sperando in un risultato migliore. E la nuova cura era portata da uomini nuovi, sconosciuti o mai visti.

Più recentemente abbiamo vissuto in condivisione: grandi famiglie in piccole stanze. Grandi condomini, con i servizi igienici in comune. Treni, navi, chiese, cinema, teatri, caserme, trincee, piene di sconosciuti gomito a gomito, ognuno a interferire con l’altro, con le sue idee, con il suo silenzio, con la sua lingua, con il suo sudore e la sua puzza, con i suoi sigari e sigarette, con il suo pane secco nascosto in qualche tasca. Non c’era tolleranza: non si trattava di “sopportare” i propri vicini e il loro bagaglio (in senso esteso), si trattava anzi di interferire con la vita altrui.

Il villaggio, il borgo, viveva sui pettegolezzi e sulle confidenze segrete riguardanti tutti gli altri (tutti sapevano i fatti di tutti). Da non confondere con le maldicenze: queste portano solo danno. Il pettegolezzo serve per integrare, digerire, disegnare giorno per giorno il consorzio umano.


Dalle piccole e grandi interferenze sono nate le condivisioni alimentari e i viaggi immensi del cibo, dei semi, della religione, della cultura umana. Gli spaghetti al pomodoro sono una preparazione araba (pasta di grano duro), condita con un frutto americano. I semi del mais arrivano anche loro dall’America e (a quanto ne so) se là hanno voluto reimpiantare il mais ottofile, han dovuto farselo mandare dalle Langhe. Infine nelle nostre chiese onoriamo e preghiamo divinità la cui incarnazione terrena è accaduta in Palestina, ed i principali esegeti di questa fede sono (grossomodo) uno algerino e l’altro turco (sant’Agostino e san Paolo).

Solo le cartine geografiche ci mostrano confini netti e ben individuati, non a caso frutto di convenzioni. Mentre gli unici confini naturali (le spiagge, i fiumi e le catene montuose) sembrano messe lì apposta per sfidare l’uomo a oltrepassare e interferire con chi si trova dall’altra parte.

Intendiamoci: interferenza non vuol dire integrazione o pacificazione. Può essere che nell’interferenza ci sia lo scontro, verbale o fisico, ma che sia comunque un passo di un percorso verso l’integrazione di fatto, l’avvicinamento reciproco.

Sembrerebbe di aver dimenticato tutto: viviamo sempre più come individui, esemplari singoli indipendenti. Tendiamo a non identificarci con il nostro gruppo. O forse apparteniamo a più gruppi non più localizzati fisicamente: gli amici del calcetto, i compagni di lavoro, la famiglia, le amicizie dei social network.


Ma restiamo soli, non interferiamo con nessuno, non vogliamo che nessuno interferisca con noi. Vogliamo viaggiare da soli, sulla nostra auto. Vogliamo esser certi di mangiare al nostro tavolo, al ristorante. A questa impressione generale si può ascrivere anche la passione per i prodotti a chilometri zero, i prodotti di alto artigianato, quelli fatti apposta per noi, possibilmente non toccati da nessuno a meno che non abbia calzato guanti di lattice (o di poliestere, visto che si è, spesso, intolleranti anche al lattice).

Com’è possibile che ne giro di così pochi anni siamo diventati tanto intolleranti? Com’è possibile che oggi ci sia “bisogno” di tolleranza, che questa sia una parola auspicata, tirata in ballo a proposito dell’emigrazione, dell’emarginazione, della presenza del “diverso”?

La tolleranza porta necessariamente ad essere intolleranti, a esplodere, a perdere la pazienza. Oppure a deprimersi, a meditare vendette, a covare sentimenti negativi. L’intolleranza porta alla violenza diretta, o imposta. Porta alla chiusura, al divieto, alla pulizia maniacale, alla correttezza formale e fredda, alla ricerca della fonte retorica e folklorica degli oggetti: un piatto tipico, un seme antico, un’ampolla d’acqua attinta direttamente alle sorgenti del grande fiume.

Tolleranza e intolleranza non sono sufficienti. Dobbiamo imparare di nuovo a interferire con il mondo, anche per comprendere quanto è complesso, articolato, arduo.

L’Homo Sapiens Sapiens ha la capacità, prima di ogni altra, di saper vivere dappertutto, di adattarsi, di trovare il modo di ridere, di organizzarsi, di raccontare la propria Storia e farne tesoro per chi viene dopo. Tollerare o intollerare brani o alimenti o altri uomini o idee o condivisioni, tende a distruggere questo fermento. Interferire vuol dire sporcarsi le mani, avere a che fare, combattere quotidianamente. Perché, pare, è dalla lotta quotidiana che deriva la felicità.

 

Condividi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.