Inginocchiarsi o non inginocchiarsi?

 Ci sono dei gesti che dicono più di molte parole o discorsi politicamente corretti o scorretti ch’essi siano, e che distinguono e qualificano in un senso o nell’altro chi li compie. Per esempio, che cosa può distinguere e marcare la differenza non solo di stile tra Joe Biden e Donald Trump meglio del gesto di inginocchiarsi o non inginocchiarsi in segno di contrizione e di pietà per George Floyd, ucciso da un agente di polizia a Minneapolis? Il democratico Joe Biden si è inginocchiato, come altri prima di lui, il tycoon repubblicano Donald Trump non solo non si è inginocchiato ma ha fatto suo il commento di un esponente del suo partito: “Leaders lead, cowards kneel” (I leader guidano, i codardi si inginocchiano).

Comunque la si pensi, è chiaro che due posizioni così antitetiche non potranno mai incontrarsi: nel giorno dell’assalto a Capitol Hill, Trump ha twittato: “Tornate a casa, ma tenetevi pronti ritornare”, questo il suo messaggio ai manifestanti. Dal canto suo Biden, a sua volta su Twitter, afferma che ”non possiamo dare a Trump altri quattro anni alla Casa Bianca, perché con le sue parole incita alla violenza e soffia sul fuoco dell’odio”. Considerazioni riprese anche in un editoriale per il Los Angeles Time: “Nessun presidente è perfetto, ma il Paese ha bisogno di un leader che non traffichi con paura e divisioni, un leader che, invece di soffiare sul fuoco dell’odio, cerchi di sanare le ferite razziali  che hanno segnato questo Paese. La verità della nostra nazione – prosegue Biden – è che troppo spesso il colore della pelle da solo può mettere in pericolo la vita di qualcuno e, per troppo tempo il razzismo (dice proprio “racism” non xenofobia) sistemico ha oppresso comunità di colore negli Stati Uniti. Su questo nessuno può restare in silenzio e nemmeno può ignorare l’ingiustizia”.

Quanto ai gesti di contrizione e di pentimento, la storica tedesca Ute Frevert ne ha ricostruito il senso in un saggio sulla “Politica dell’umiliazione” inferta o subita in duecentocinquant’anni di storia: Politik der Demutigung , Fischer Verlag, 2017. La Frevert indica nell’inginocchiamento di Willy Brand al ghetto di Varsavia il segno di una svolta: la dimostrazione che il riconoscimento pubblico della colpa può rappresentare un segno di forza aprendo così la strada alla “politica delle scuse” (più o meno sincere) che durerà per tutti gli anni Novanta. In questo contesto può essere interpretata, tra l’altro, la provocazione di Maurizio Cattelan, che ha messo un Hitler con corpo di bambino in ginocchio e a mani giunte nel ghetto di Varsavia (vedi la “Lettura di un’immagine” di questa domenica su “Trucioli savonesi”). Nel mondo dello sport, come narrano le cronache, il primo a portare sulla scena del grande calcio internazionale il gesto del “take a knee”, cioè del mettersi in ginocchio, dopo l’uccisione di George Floyd, è stato Marcus Thuram.

Nell’occasione del campionato europeo, l’Uefa ha rilanciato, incoraggiando quel gesto antirazzista dopo aver sostenuto varie iniziative in questo senso negli stadi di tutta l’Europa con lo slogan “Respect”. Su questo fronte c’è da segnalare che alcune squadre si inginocchiano e altre no: per esempio è successo che prima della partita Inghilterra – Croazia, gli inglesi si sono inginocchiati mentre i croati sono rimasi in piedi a guardare. Anche i tifosi sono divisi ed è capitato di ascoltare bordate di fischi verso chi si inginocchia, come è successo in una partita preparatoria e amichevole Irlanda – Ungheria giocata a Budapest, con il premier Orban che ha stigmatizzato il gesto di inginocchiarsi come provocatorio. Questo campionato sta rivelando, tra l’altro, le difficoltà dell’Unione Europea e di una parte del pubblico inglese nel condividere un valore come quello dell’antirazzismo che dovrebbe essere indiscutibile e indiscusso; come interpretare altrimenti i fischi che si sono sentiti anche a San Pietroburgo prima della partita Belgio-Russia e a Wembley, prima della partita Inghilterra – Croazia e le parole di Nigel Farage, per il quale “inginocchiarsi significa solidarizzare con una organizzazione marxista che vuole eliminare le forze politiche, distruggere il capitalismo occidentale, cancellare il nostro modo di vivere e sostituirlo con un nuovo ordine comunista”.

Come si vede, il “take a knee” è un gesto più divisivo che unificante (come se già non bastassero le diverse tifoserie); ma che cosa ne dobbiamo dedurre? Che è meglio non inginocchiarsi, magari con la motivazione di comodo che la politica deve restare fuori dallo sport? Dunque fanno male quei giocatori e quelle squadre che si inginocchiano per manifestare il proprio antirazzismo? Il caso italiano, tanto per non smentirci mai di fronte al mondo intero, è emblematico: lo scrittore Ferdinando Camon non usa mezzi termini: “I calciatori della nazionale che si sono inginocchiati per manifestare a tutto il mondo la loro protesta contro il razzismo, hanno compiuto un gesto civile e apprezzabile, i giocatori che sono rimasti ostentatamente in piedi hanno compiuto un gesto moralmente disprezzabile. Non doveva succedere che alcuni giocatori rifiutassero di schierarsi contro il razzismo, mostrando così una palese insensibilità, che vuol dire indifferenza, al tema della violenza razziale. E dispiace che l’Italia non abbia inviata la richiesta alla Uefa per la partita di domani contro l’Austria. Almeno in questa circostanza, ci sarà un comportamento collettivo omogeneo” (da La Stampa del 25 giugno 2021).

E difatti, prima della partita contro l’Austria di sabato 26 marzo, vinta per 2 a 1, tutta la squadra italiana  si è inginocchiata, con gli applausi virtuali di Enrico Letta e i fischi altrettanto virtuali di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e tutta l’estrema destra sovranista e populista. A dimostrare che la politica c’entra, eccome, nello sport, basti leggere l’articolo di Elena Loewenthal, sempre su La Stampa, del 3 luglio 2021, intitolato “CasaPound, i fasci e gli inginocchiati”: “Come è risaputo, questa mancanza di coerenza da parte di chi detta  i comportamenti della nazionale di calcio ha destato una quantità di polemiche: ’S’inginocchiano?’ Non si inginocchiano?’ è diventata così la domanda cruciale, in queste calde serate estive in cui si fa e si dice di tutto pur di non parlare di varianti (nel senso del virus).

Ma ecco che, giusto per gettare benzina sul fuoco, – portare nottole ad Atene, a seconda dei punti di vista – ci si mette pure CasaPound che, a poche ore dalla partita Italia- Belgio, pensa bene di ritoccare con un blitz il murale di via Neofiti a Roma: al posto dell’omino del subbuteo in ginocchio, che porta sulla maglia la frase (in inglese) ‘Fai la cosa giusta’, grazie a un fulmineo gioco di taglia e cuci compare un giocatore eretto, con tanto di braccio levato e un imperioso ’Resta in piedi’ suggellato dal punto esclamativo”. Dunque a chi nutrisse  ancora qualche dubbio sul valore eticopolitico del gesto di inginocchiarsi, ci ha pensato CasaPound a torglielelo. Evviva la chiarezza!

       FULVIO SGUERSO

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